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sabato, 27 Luglio 2024

La strage dei lungodegenti

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Riccardo Graziano
Riccardo Graziano
Figlio del boom demografico e dell'Italia del miracolo economico, vive con pessimismo non rassegnato l'attuale decadenza del Belpaese. Scopre tardivamente una vocazione latente per il giornalismo e inizia a scrivere su varie testate sia su carta stampata sia su web.

Nella ultime settimane, Covid-19 ha colpito duro soprattutto nelle RSA, le Residenze Sanitarie Assistenziali, quelle che una volta erano dette “Case di riposo”. Il virus ha fatto strage nella generazione più anziana, la memoria storica del nostro Paese, quelli che hanno saputo resistere alla guerra, ma non hanno potuto difendersi in questa battaglia.

Sono i nostri padri e i nostri nonni, quelli che hanno ricostruito l’Italia devastata dai bombardamenti, che hanno lavorato sodo contribuendo al “miracolo economico” del secondo dopoguerra, che ci hanno regalato il benessere di cui in gran parte godiamo ancora, che hanno rivendicato e ottenuto quei diritti che ancora ci proteggono.

Ora che sono diventati fragili, malati, non autosufficienti, avremmo dovuto proteggerli, tutelarli, soccorrerli. Invece, stanno morendo a decine, spesso soli, senza che i parenti possano assisterli, tenergli la mano, dare loro un’ultima carezza. Scivolano via in silenzio, spesso senza nemmeno passare per le terapie intensive degli ospedali per un estremo tentativo di cura. Senza nemmeno la dignità di un funerale, un ultimo saluto  che renda loro omaggio per averci cresciuto, per averci lasciato un Paese che, nonostante tutti i problemi e le lamentele, è ancora uno di quelli dove si vive meglio al mondo.

Perché è successo, perché sta succedendo tutto questo?

Le organizzazioni umanitarie, che di epidemie se ne intendono, perché ne hanno affrontate molte, dal morbillo al colera alla temutissima Ebola, sanno che in queste emergenze il primo imperativo è proteggere gli operatori sanitari. Perché possano continuare a curare i malati – tutti, non solo quelli infettivi – e perché non diventino essi stessi infetti, contribuendo a veicolare il contagio tra le corsie.

Ormai è più che assodato che questo non è stato fatto. All’inizio dell’emergenza, complici i tagli decennali alla Sanità, c’era una penuria assoluta di DPI, i Dispositivi di Protezione Individuale fondamentali per operare in sicurezza ed evitare il contagio. Mascherine, tute, occhiali mancavano un po’ ovunque. Non solo: all’inizio non sempre e non dappertutto sono stati predisposti percorsi separati per i soggetti a rischio, lasciandoli così a contatto con gli altri pazienti. È essenzialmente per questi due motivi che gli ospedali sono diventati in breve tempo i maggiori focolai epidemici. Qualcosa di analogo è successo anche negli studi di alcuni medici di base, dove la presenza di infetti ha portato il contagio ad altri utenti e agli stessi dottori della mutua.

Chi si intende di epidemie sa che come seconda cosa occorre circoscrivere il contagio, che a quel punto stava già sfuggendo di mano, andando oltretutto a colpire le persone più vulnerabili, appunto i degenti negli ospedali e i pazienti dei medici di base, spesso anziani o portatori di malattie croniche. Persone, cioè, che avevano maggiori probabilità di contrarre la malattia in forma acuta, con la necessità di ricovero, in alcuni casi in terapia intensiva. A causa di strutture ridotte all’osso da anni di tagli alla Sanità, in breve la situazione è arrivata ai livelli di guardia, con i reparti saturi.

A quel punto, qualcuno ha avuto l’idea di trasferire i pazienti meno gravi presso le RSA. Una follia.

In questo modo, si è offerta al virus la possibilità di espandere le proprie colonie su una popolazione con difese immunitarie bassissime, indebolite da patologie preesistenti o, semplicemente, dall’età. E anche qui, non si è provveduto a mettere in sicurezza gli operatori sanitari, che a loro volta hanno contratto il virus e lo hanno veicolato a tutti gli ospiti.

Occorre fare un passo indietro, per capire la situazione delle RSA al momento dell’epidemia.

Abbiamo detto all’inizio che le vecchie “Case di riposo” sono diventate Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA, appunto). Non si tratta semplicemente di una sottigliezza semantica. Significa che, a differenza di quanto succede nel resto d’Europa, queste strutture sono sempre meno luoghi dove gli anziani vanno a godersi un meritato riposo e sempre più luoghi di cura. O, se preferite una definizione più tecnica, dove le prestazioni sanitarie sono diventate preponderanti rispetto alla residenzialità.

Le strutture residenziali in Italia, secondo l’ultimo dato disponibile (Istat 2016), sono 12.500, con 285.000 ricoverati con almeno 65 anni. Un tasso di copertura (la misura della percentuale di anziani ricoverati rispetto al totale) pari a metà di quello spagnolo, un terzo di quello tedesco, quasi un quarto rispetto a Svezia e Olanda. E con una componente “alberghiera”, ovvero indirizzata agli ospiti autosufficienti, notevolmente ridotta, poco più del 20%. In altre parole, quasi l’80% , cioè 4 su cinque, sono pazienti non autosufficienti, in tutto o in parte. Una situazione già di per sé inadeguata a soddisfare le esigenze di una popolazione in progressivo invecchiamento, figuriamoci per una fase emergenziale.

Anche in questo caso, come per gli ospedali, il virus non ha fatto altro che far esplodere con drammatica evidenza carenze preesistenti, frutto di una programmazione strategica errata, di mancati investimenti, di tagli indiscriminati. Tanto per fare un raffronto, negli ultimi anni la Spagna ha raddoppiato i posti letto, mentre da noi si tendeva a trasformare le residenze per anziani in strutture sanitarie per lungodegenti, pazienti più fragili e la cui gestione è dunque evidentemente più onerosa in termini sia assistenziali, sia economici. A fronte di ciò, le Regioni non hanno in genere provveduto ad alzare la propria quota contributiva. Le conseguenze sono state da un lato un aumento della quota a carico dei degenti (o dei parenti che provvedevano al pagamento), dall’altro la necessità per le strutture di operare comunque una politica di riduzione dei costi, a partire naturalmente da quelli relativi al personale.

In questo contesto di strutture rivolte a pazienti estremamente anziani e spesso affetti da pluripatologie, con l’assistenza ridotta all’osso e senza possibilità e presidi per il contenimento del contagio, qualcuno ha avuto la bella pensata, per alleggerire gli ospedali, di inserire i pazienti positivi al Covid-19 con sintomatologia meno grave, ma non per questo meno infettivi. Come sganciare una bomba batteriologica su una popolazione inerme, spesso costretta a letto o non sufficientemente lucida da adottare comportamenti di tutela anche banali, come lavarsi spesso le mani o mantenere distanze adeguate dagli altri ospiti.

I risultati li abbiamo sotto gli occhi in questi giorni, specialmente in Lombardia e Piemonte, con tassi di mortalità elevatissimi in queste strutture. Non a caso, sono già partite alcune inchieste della magistratura, spesso allertata dai parenti delle vittime o da rappresentanti sindacali degli stessi operatori, a loro volta a rischio e fra i quali si contano non poche vittime, nonostante l’età sicuramente inferiore rispetto ai pazienti.

Se è vero ciò che spesso sentiamo ripetere, ovvero che “dopo l’epidemia nulla sarà come prima”, questo è uno dei tanti aspetti su cui si dovrà intervenire: investire sulle strutture per la terza età, per garantire un’ospitalità dignitosa e un’assistenza adeguata a tutti gli anziani. A quelli che già lo sono e a quelli che lo saranno domani.

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