Nel 2016, in piena campagna elettorale per Torino, l’ex forzista Roberto Rosso, monocromatico candidato di più liste civiche basculanti tra il centro di matrice cattolica e il centrismo di destra, giocava a fare il maoista fuori tempo massimo, agitando un libercolo di color infallibilmente rosso che denunciava il cosiddetto Sistema Torino. Quel sistema di potere, a suo dire (e non senza qualche ragione), che aveva governato la città dal 1993, dalla vittoria di Valentino Castellani con una coalizione esperimento ante litteram dell’Ulivo di Prodi fino a Piero Fassino, passando per i due mandati di Sergio Chiamparino. Come la più fedele e genuina delle Guardie rosse della Rivoluzione culturale, Rosso in quei giorni denunciava con incrollabile fede le presunte malefatte del centro sinistra che sarebbe stato – da teorico del ramo per un processo finito comunque con la sua assoluzione – più spartitorio negli affari che rivoluzionario nei comportamenti. Insomma, una forte denuncia politica che in quei giorni del ballottaggio l’aveva spinto a schierarsi con una pubblica dichiarazione di voto a favore di Chiara Appendino.
Le mode cambiano e Roberto Rosso – rinsavito, sempre a suo dire – ora lamenta una presunta discriminazione ai suoi danni portata avanti dal Pd, che ritarderebbe il suo ingresso nella Commissione d’inchiesta sugli eventi della sera del 3 giugno, dopo le dimissioni del leghista Fabrizio Ricca. Rosso che ha un ansiogeno bisogno di visibilità ha visto giusto: il Pd non gli ha perdonato quella discesa in campo avverso. Quando lo si cita, infatti, i volti di Stefano Lo Russo e di Enzo Lavolta, per citare i più alti in grado dei dem, si contraggono in una smorfia che suona più o meno così: faccia Purgatorio. In fondo, una fortuna per Rosso. In Paradiso, pare che ad Appendown non offrano neppure più un caffè: è fuori bilancio.