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martedì, 22 Ottobre 2024

Caso Orlandi, Fabrizio Peronaci: “Quei documenti sono chiaramente falsi. È una macchina del fango contro la Chiesa”

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Moreno D'Angelo
Moreno D'Angelo
Laurea in Economia Internazionale e lunga esperienza avviata nel giornalismo economico. Giornalista dal 1991. Ha collaborato con L’Unità, Mondo Economico, Il Biellese, La Nuova Metropoli, La Nuova di Settimo e diversi periodici. Nel 2014 ha diretto La Nuova Notizia di Chivasso. Dal 2007 nella redazione di Nuova Società e dal 2017 collaboratore del mensile Start Hub Torino.

Fabrizio Peronaci, giornalista e scrittore commenta la vicenda dei presunti documenti provenienti dal Vaticano, di cui si sta parlando da giorni.

Il suo intervento arriva attraverso il gruppo facebook “Giornalismo investigativo”.

«Caso Orlandi, una vergogna la macchina del fango azionata sulla Chiesa. Questo non è giornalismo d’inchiesta», denuncia Peronaci che poi scrive:

«Fatemelo dire, amici, talvolta indignarsi è giusto. Una volta tanto consentitemi di essere polemico. D’altronde lo sapete, del triste caso di Emanuela Orlandi e delle trame di Stato attorno ad esso costruite un po’ mi sono occupato.

Oggi – incredibilmente – sta accadendo questo: sulla base di un documento chiaramente falso, farlocco, attribuito a un cardinale che non può replicare (pace all’anima sua), si stanno gettando tonnellate di fango sulla Chiesa nel suo complesso, con il risultato di offendere e ferire milioni di credenti e sacerdoti perbene. Il tutto sull’altare di una spregiudicata operazione, studiata a tavolino per lanciare un libro.

Chiunque abbia letto “Mia sorella Emanuela” e “Il ganglio” o qualcuno delle centinaia di articoli che ho scritto sulla vicenda Orlandi-Gregori sa bene che non è mia abitudine omettere, censurare, accettare veline o verità precostituite. Dentro il Vaticano, in relazione alla scomparsa di una ragazzina quindicenne nel lontano 1983, ci furono e persistono responsabilità precise, che non sono state perseguite. Certamente. E per questo, quando due anni fa il procuratore Giuseppe Pignatone decise che il caso andasse archiviato, nonostante i molti elementi emersi nell’inchiesta del suo vice, Giancarlo Capaldo, espressi qualche perplessità. Nel silenzio corrivo di chi ora si erge a moralizzatore.

Oggi, tuttavia, la questione è diversa. Ben più grave di una divergenza di valutazioni. Siamo alla macchina del fango cinicamente costruita a scopo di marketing, ai danni di una istituzione che, pur tra tanti difetti, qualcosa di buono in duemila anni l’avrà pur fatto. Che il “dossier Orlandi” anticipato con mirabile suspense e tanto enfatizzato sia falso, frutto di una delle molte guerre intestine in scena da sempre nelle Mura leonine, lo capisce anche un bambino, in chierichetto.

E quindi come tale andrebbe trattato. Con misura, equilibrio, rigore. Al contrario si è preferito ipotizzare, insinuare e lasciar credere che il Vaticano per 14 anni abbia pagato centinaia e centinaia di milioni di lire per tenere in vita, debitamente segregata, quella ragazzina graziosa entrata nel cuore di tutti… Dal che si dovrebbe dedurre che i vertici della Santa Sede abbiano scientemente preso per i fondelli la famiglia e l’universo mondo, esprimendo solidarietà mentre sapevano dove Emanuela si trovasse …

Adombrare una roba del genere senza prendere le distanze equivale a dire che la Santa sede e’ una organizzazione mafiosa… Complimenti, colleghi. Una bruttissima pagina, davvero.

E poco conta la marcia indietro pelosa, già innescata, che consiste nel dire che in fondo anche se il dossier è falso lo scoop resta, perché dimostrerebbe l’esistenza di corvi in Vaticano. Suvvia, siamo uomini di mondo! No, ormai la becera disinformazione (considerata la disattenzione della stragrande maggioranza dei lettori) e’ stata fatta. La ferita sulle coscienze dolorosamente impresa e l’onore della Chiesa – su questo specifico caso – indelebilmente macchiato.

Amici, vi saluto. Io credo in una informazione libera e coraggiosa, ma anche rigorosa, corretta, eticamente seria, rispettosa, che non generalizza, consapevole di un principio basilare, che la responsabilità è personale. Se ho scritto queste righe indignate, è perché confido ancora che un giornalismo d’inchiesta degno di questo nome possa prevalere sull’andazzo prevalente che, purtroppo, va in tutt’altra direzione».

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