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martedì, 22 Ottobre 2024

Blues ed elettricità, la strada di Slash contro il virtuosismo

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

Sale sul palco, aggredisce le corde con il riff iniziale di Apocalyptic Love, e al Pala Alpitour scoppia il boato. Praticamente tutto esaurito, sul “prato” e sugli spalti, migliaia di persone arrivate da tutta Italia per assistere all’uomo a sei corde (distorte) più popolare del pianeta, che si è esibito in una location non eccelsa dal punto di vista acustico, ma gradevole per i suoi ampi spazi all’ingresso, per le entrate plurime da cui gustare scorci differenti di musicisti e folla, oltre che per l’ampia disponibilità di bevande all’ingresso e fin quasi sotto il palco. Peccato per i prezzi e soprattutto per quel piccolo esercito di imbecilli palestrati e servili che non trovano altro mezzo di sussistenza che prestarsi ogni volta al miglior offerente (dai locali dei Murazzi qualche anno fa, a quelli di San Salvario oggi, ed ogni volta ai concerti del palazzetto o all’Olimpico) per disturbare il pubblico con le imposizioni più assurde: da quella di non salire sulle spalle del proprio amico o del proprio ragazzo durante lo show (!) a quella, ben presto acrobaticamente disattesa dal vostro inviato, di non scavalcare le mille insopportabili barriere che dividono l’evento in mille “settori”, “anelli” e sticazzi differenziati in base al reddito.
Bando alle ciance: scoppia Nightrain, pezzo del 1987 a firma Guns n’ Roses, la band-leggenda in cui Slash ha militato tra gli anni Ottanta e i primi Novanta. Nella sua biografia Slash. The Biography (2007, ripubblicata da Feltrinelli), gli episodi più divertenti risalgono proprio, manco a dirlo, al primo periodo gunner. Dai molteplici tentativi di tenere un lavoro per più di un mese alla sempiterna (ma parossistica) croce/delizia dei rapporti con l’opposite sex, fino all’esperienza dell’eroina (raccontata con amore commovente, anche un po’ scientifico) e di una quantità di altre sostanze che condussero la rock star quasi a sparare all’amico e bassista Duff McKagan, scambiato per un folletto malvagio a causa delle allucinazioni da speedball. Eppure, dal punto di vista musicale, è anche a partire dal seguito che questo gioviale miliardario – pur sempre un soggettone da strada – ha costruito e rafforzato, con tenacia e dedizione, l’aura di massimo rispetto che l’accompagna. Dopo gli ultimi anni Novanta con gli Slash’s Snakepit (due album fortemente blueseggianti, molto duri, di altissimo valore musicale) e i primi Duemila (con il poco convincente tentativo dei Velvet Revolver), si è consacrato per sempre alla storia con i tre pregevolissimi album da solista (2010-2014).
La canzone che dà titolo all’ultimo, World On Fire, ha attirato domenica ovazioni, anche se è soprattutto il riuscito ritornello di Bent to Fly ad aver alzato i decibel tumultuati dalla canaglia: letteralmente impossibile non cantarlo. Molti i quaranta-cinquantenni presenti, e i trentenni sugli spalti. Un centinaio di ragazzi in età scolare in prima fila, esaltati soprattutto dai pezzi recenti e da un paio di classici (Paradise City, suonata come bis, tra tutte: ma quale generazione non la amerebbe, in quale parte del mondo?). Non conoscono l’opera omnia (ormai circa centotrenta brani); ma Slash è famoso, a suo modo un mito per chi ama la musica che spinge oggi dalle frequenze di Virgin Radio. Vero, il Reggae non passerà mai di moda; l’elettronica, probabilmente, neppure; gli anni Cinquanta-Sessanta tornano ciclicamente in auge, la dance-OttantaNovanta non parliamone, e il Jazz e la musica colta avranno sempre il loro pubblico; ma per gli anni Settanta, diceva a Slash un giornalista TV un paio di anni fa negli States, ci sei rimasto soltanto tu.
“Seventies are gone”: revival al Pala Olimpico? Più semplice: suona quel che sa, lo sa perché gli piace; gli piace perché è musica oltre la musica, colonna sonora di uno stile di vita. Conseguenza: lo suona bene. Stile che un tempo fu dirompente, “sconvolse le regole”; poi diventò regola; infine – lo ha mostrato l’atteggiamento addomesticato del pubblico torinese, disciplinato fino alla nausea – è stato neutralizzato come normalità ambigua, ripetitiva, dove trionfa l’organizzazione controllata, moderata dell’eccesso – fino alle follie del prurito per la militarizzazione di un concerto. Tant’è: anche se oggi Slash, tenuto in vita da un bypass per i suoi eccessi passati, non fuma neanche più sigarette, i suoi riff sono un’offesa ad ogni concezione della vita che sia scevra dall’esagerazione, dall’esplorazione dei limiti, dall’offesa gratuita dell’indolenza, dalla provocazione e dalla violenza. Questo è stato, ed è, il rock n’ roll, con buona pace di Stampa e Repubblica e della riduzione estetica di ciò che apparirà loro sempre e soltanto l’ennesima, semplice, occasione di “divertimento”: d’altra parte, sarebbero pronti a valorizzare tutto e il contrario di tutto, pur di affogare ogni cosa nella melassa dello spettacolo dove tutto è permesso, a patto che non si traggano mai (intellettualmente, moralmente, fisicamente) le conseguenze di ciò che si sente.
Non si tratta di un “messaggio” da decifrare e tradurre in dottrina, ma di scale pentatoniche che cantano da sole, di bending che gridano al cromatismo fino a che il suo infinito lamento/godimento blues non si avvera in un bemolle – cento, mille volte in un assolo, in un fraseggio, nei bassi della base che accompagna un tema che si impone da solo, come fosse sempre esistito nelle possibilità dei nostri cuori. Questa alternanza, che nacque tra gli schiavi neri secoli fa e fu saccheggiata dai ragazzi bianchi alla fine degli anni Sessanta, emerse dalla psichedelia e dal melodismo iniziale a fine Settanta come precisazione dura, ruvida e minacciosa di una forma che da Muddy Waters agli Stones aveva accompagnato la poesia del peccato con sonorità più soffici, di fatto primo-novecentesche. Dopotutto, erano già in arrivo il punk e il glam metal, la disco e l’elettronica. La linea chitarristica che da Jimmy Page arriva a Slash, passando per Angus Young, fu in fondo fin dall’inizio una corda tesa sul vuoto. Nulla o poco con essa, a ben vedere, ebbero a che fare tanto le acrobazie metalliche di Ritchie Blackmore o Tony Iommi, o i successivi virtuosismi degli Iron, quanto il barocco (apparentemente) lussureggiante dei Dream Theater o degli Halloween.
Di cosa parliamo? Parliamo di un’attitudine alla chitarra elettrica tutta orientata alla tensione verso il piacere, all’erotismo e al desiderio; non all’orgasmo, ma alla tensione che lo precede (di qui il pericolo). Un’attitudine che non può dirsi gioiosa né triste, poiché neanche la schitarrata più malinconica è esente da effetti di sorriso, magari imperturbabili, poiché la consapevolezza tragica dell’assenza di un senso collima con l’apertura di spazi indefiniti per l’esperienza dei sensi: per questo il sesso è al centro, e lo sono le sostanze, i motori, i vestiti e il viaggio. Per questo lo sono il denaro, l’alcool, l’azione, la notte e la grande città. Lasciate perdere Nietzsche. Qui non c’è l’Oltreuomo, tanto meno il Viandante su un mare di nebbia che si trova oggi sulle sue copertine. C’è tutto ciò che i grandi reazionari, o gli snob più o meno stupidi o consapevoli hanno sempre odiato: la folla, la tecnica, le masse, il consumo; la merce; quanto Oscar Wilde riteneva, con qualche riluttanza, di minimo valore estetico nell’epoca contemporanea: il “ruggito delle democrazie”.
La “democrazia” (da intendere qui come potere socio-culturale delle masse sui codici delle élite, e non come sistema politico) ha ruggito nella grande adunata di Altamont documentata dal film Gimme Shelter (e un chitarrista cui sicuramente Slash offre tributo è Keith Richards) fino al grande tour mondiale di Use Your Illusion, passando per i Pink Floyd sotto il Muro e il Peace Festival di Mosca nel 1990. In questo profluvio di band, stili e tendenze la corda tesa da Page e trattenuta dopo mezzo secolo da Slash è del tutto originale. Capireste se l’aveste ascoltato l’altra sera nel suo solo (davvero ispirato, anche più del solito) di quasi venti minuti sulla base dell’immensa Rocket Queen. Vedere alla voce “Non suonare la chitarra, farla piangere” (e ancora non sai se di rabbia, o di gioia); e tutta la sporcizia del suono, che apparentemente testimonia un difetto di tecnica, è acquolina nel palato fine dei grandi musicisti del rock n’ roll, quelli che suonano male, perché è il male che vogliono fare; quelli che suonano ora, per cui ogni volta è improvvisazione – quelli per cui il pentagramma non esiste; e milioni di ragazzi, in ogni parte del mondo, suonano come loro e sanno di che si tratta.
Nella generale tendenza alla riproducibilità e all’uniformazione estetica, enigmi dell’età moderna, il tocco maligno su quelle corde, alieno da virtù manieristiche, musicali o morali, gocciolante sudata passione eppure scevro da ogni romanticismo in senso proprio; il riverbero sui pick up che conduce misteriosamente la vibrazione acustica nel ventre dello strumento, la espelle nel maschio del lungo cavo e l’accompagna attraverso esso, scaraventandola in faccia alle prime file dalle grandi muraglie di Marshall, che sempre ricorderanno tanto le esibizioni adolescenziali nei pub di provincia quanto i centomila di Donington: tutto questo è il canto del cigno del residuo umano dentro la tecnologia che ci approssima da ogni futuro. È tensione poetica nella logica, blues nell’elettricità, strada per gli stivali di Slash, che si libera ogni volta dalle virtù inutili con una giravolta. Accarezza le sei corde perché sono la sua esistenza, ritmando con il ginocchio, la Les Paul appoggiata alla coscia, e rende il grande spazio del palazzetto fibrillante, per un attimo sgomento: un groppo in gola, e vede alzarsi le mille mani dell’ugly crowd per l’Intro di Ghost. Questa folla è brutta, è vero, ma pur sempre in attesa del piccolo mantra: “Kill the ghost/that hides in your soul/Rock n’ Roll…”. I migliori auguri alla folla: lui è partito, e noi con lui.

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