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martedì, 22 Ottobre 2024

Black Bag Notes. L’arte personale e intimamente politica di Manuela Macco

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

Una donna intenta nella vestizione, raccoglie da terra fogli di giornale, costruisce un abito di carta che avvolge completamente il corpo nudo, dalla testa ai piedi, diventando una gabbia deformante che la prevarica ed immobilizza. Una donna cerca di far aderire il suo corpo alla superficie di un angolo. Una donna ricopre il suo volto con fotografie della propria pelle. Una donna ferma con una scatola di cartone sulla testa, sulla riva di un fiume che scorre a ritroso. Una donna cammina con un sacco di plastica nera sulla testa, un sacco voluminoso che contiene altri sacchi e che si deforma rendendo sempre più difficile la conservazione dell’equilibrio.

Manuela Macco è un’artista visiva assolutamente originale, atipica, difficile da etichettare, autrice di performance ed installazioni essenziali ma di grande impatto. Biellese di nascita, classe 1970, si laurea in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università di Torino, città dove vive e lavora. Nel corso della formazione universitaria approfondisce la storia della performance art e si interessa di approcci femministi alla storia e alla critica d’arte. Parallelamente, oltre che all’apprendimento della pittura, si dedica per oltre un decennio allo studio della danza contemporanea. Dalla fine degli anni Novanta comincia a ideare azioni basate sull’uso del proprio corpo sviluppando un linguaggio che si colloca inizialmente a metà strada tra performance art e coreografia, ma negli anni successivi utilizza strumenti differenti: la performance, il video, la fotografia, il disegno e l’installazione. Nel 2012 fonda il progetto torinoPERFORMANCEART, di cui è co-direttrice e co-curatrice («a Torino non c’era uno spazio dedicato alla performance, quindi mi sono inventata un’occasione per invitare artisti a Torino e promuovere questa forma di espressione artistica»). Di recente la Fusion Art Gallery le ha dedicato una personale dal titolo “Black bag notes”, curata da Barbara Fragogna, che raccoglieva i lavori tra i più rilevanti realizzati da Manuela Macco tra il 2010 ed il 2017.

Centrale nella sua ricerca è l’indagine sul corpo inteso sia come strumento di espressione e di conoscenza, sia in quanto fatto politico e socio culturale. La sua opera affronta questioni che la coinvolgono direttamente come l’essere donna e l’essere artista. I meccanismi del processo creativo, il ruolo dell’artista nella società, la relazione tra pubblico e artista, la costruzione sociale dell’identità, il rapporto tra sfera pubblica e privata sono alcuni dei contenuti esplorati nel suo lavoro. «Nelle opere di Manuela Macco la negazione si impone. Tutto è ridotto al minimo. Il suo è un lavoro essenziale e per questo molto complesso – spiega Barbara Fragogna, direttrice artistica della Fusion Art Gallery  – non tenta di gratificarci in alcun modo, ci (e si) mette volentieri a disagio, attraverso pochi elementi poveri, quotidiani, comuni dietro ai quali c’è un grande lavoro concettuale che è la base della sua ricerca. La consapevolezza di sé come donna e artista è l’imprescindibile chiave di lettura del suo lavoro. Utilizza strumenti mininali, come gli spilli, o oggetti di uso quotidiano molto semplici e questa essenzialità nell’utilizzo dei materiali come dei colori crea un’atmosfera più diretta e nitida nella relazione con il pubblico. Un lavoro molto onesto, originale e personale.»

«Nella mia ricerca artistica – racconta Manuela Macco a Nuovasocietà – il mio interesse si concentra sulla relazione tra mente e corpo, sul ruolo dell’artista nella società e sul rapporto tra l’artista ed il pubblico. E anche sulla condizione femminile, un tema che ho approfondito a livello teorico e storico quando studiavo e che poi ho sviluppato in alcune performance. Un’artista femminista? Dire un’artista che si occupa anche di tematiche legate al femminismo, ho lavorato molto su “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir che è alla base della performance “My personal daily training” (2013), dove tengo sulla testa libri di autrici femministe o che hanno scritto sulla condizione femminile.»

Tra i tuoi lavori più significativi c’è “Dress”, una performance di circa un’ora realizzata a Berlino e Vienna, dove ti ricopri integralmente con fogli di giornale

«Quella performance nacque nel 2010 come reazione istintiva a quanto stava succedendo in Italia con gli scandali a sfondo sessuale che coinvolgevano Silvio Berlusconi e che erano molto presenti sui giornali. Un’informazione martellante, che contribuiva a creare un’immagine della donna davvero inquietante. Così ho sentito l’esigenza di lavorare sul senso di soffocamento e di paralisi che questa immagine della donna proposta dai media italiani mi trasmetteva. Usando le pagine dei quotidiani ho costruito un vestito direttamente sul mio corpo nudo. Raccoglievo ad uno ad uno i fogli dal pavimento, li appoggiavo sul corpo costruendo l’abito con l’aiuto di nastro adesivo, strato dopo strato l’abito veniva ad assumere gradualmente forme diverse e, esauriti i fogli, provavo ad uscire dalla stanza, ma l’abito di carta mi impediva di camminare, vedere e muovermi liberamente, come una gabbia deformante e immobilizzante.»

Dietro ai tuoi lavori, che siano performance o installazioni, c’è un grande lavoro preparatorio
«I miei lavori nascono generalmente sulla carta in forma disegnata o scritta, a partire dagli anni ‘80 ho raccolto in quaderni di varia misura centinaia di bozzetti, schizzi e appunti relativi a progetti artistici che volevo realizzare. Negli ultimi anni ho iniziato a catalogare i notebooks come materiale di partenza per nuovi esperimenti come “Valve” (2017), un progetto di archiviazione creativa che parte proprio dai miei quaderni. Rielaborando e trasformando quel materiale preparatorio, estrapolando dei testi e dei dettagli, creo un nuovo lavoro. La documentazione – che si tratti di un quaderno o di un video – non è un residuo oggettivo, ma è parte integrante della stessa azione artistica.»

Una caratteristica della tua ricerca artistica è l’essenzialità, la semplicità
«La lentezza, il silenzio, l’ascolto dello spazio e del corpo, il fare ma non troppo, sono tutti elementi presenti nel mio lavoro. Un minimalismo formale e stilistico che privilegia lo stare più che il fare. Mi attraggono i materiali poveri, fragili, sottili, poco visibili e non troppo invadenti. Giornali, fotografie, libri, spilli, fili di cotone bianco, sacchi di plastica nera. In particolare quei materiali apparentemente senza valore ma portatori di contenuti: i giornali e i libri contengono parole, i sacchi contengono altri sacchi.»

Nelle tue opere è centrale il corpo. Penso a “Pins box” (2016), dove il pubblico fissa al tuo abito, tramite spilli, foto macro della tua pelle. O “In the corner” (2011), una performance in cui cerchi di far aderire il corpo alla superficie di un angolo. Lavori che toccano una sfera intima e personale

«Parlerei di “personale/intimo politico”, più che di “personale/intimo privato”. Parto da me, da ciò che sono, un’artista ed una donna, ma il mio è un personale simbolico, perché rifletto sulla condizione generale della donna e dell’artista che si relaziona con il mondo. Un altro filo rosso del mio lavoro è il tenere in equilibrio degli oggetti sulla mia testa: che siano libri come in “My personal daily traing” o scatole di cartone come in “Promenade sur les bordes du Rhone” (2013) o un sacco di plastica come in “Black bag” (2016). L’equilibrio è tanto più difficile da ottenere quanto meno corporeo è l’oggetto da sostenere. Per quanto leggere il sacco di plastica cambia forma e tende a scendere verso il basso rendendo difficile la camminata nello spazio. “In the corner” era un lavoro sulla resistenza, una performance che durava circa un’ora dove cercavo di adattare la superficie tridimensionale del mio corpo allo spazio geometrico di un angolo. Una battaglia persa in cui cercavo di esplorare tutte le sensazioni della condizione dello stare nell’angolo, in senso fisico e metaforico. L’angolo è anche un margine, e questo richiama alla condizione della donna come a quella dell’artista. Anche se all’apparenza sembrerebbe non poterci essere un modo di stare nell’angolo che non sia scomodo e frustrante, per me come per chi mi guarda, tuttavia, oltre alle difficoltà, ci sono delle possibilità in quello stare nell’angolo, ci sono delle risorse anche in quella situazione.»

www.manuelamacco.com

www.torinoperformanceart.com

www.fusionartgallery.net/manuela-macco.html

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