E’ curioso che, in un momento particolarmente delicato per la vita economica e sociale del nostro paese, ci si soffermi sulla “quantità” degli iscritti ai partiti. In particolare nel Pd. Una discussione un po’ surreale ma quando diventa oggetto di dibattito politico nazionale è ovvio che il tema si impone all’attenzione della pubblica opinione. O almeno di quella parte che legge i quotidiani, segue i vari talk televisivi ed è appassionata al futuro della politica italiana e, nello specifico, in una politica democratica.
Ma, per restare al tema, non c’è dubbio che la caduta verticale degli iscritti al Pd non è solo il frutto di una momentanea dimenticanza di chi si riconosce in quel partito, di un distacco dal partito o di una volontà di proseguire l’impegno politico al di fuori del Pd. Nulla di tutto ciò. La caduta degli iscritti è riconducibile ad altre motivazioni.
Innanzitutto il profilo del Pd è cambiato. Ed è cambiato in profondità. L’avvento alla segreteria di Renzi ha impresso non solo maggior vivacità e dinamismo al Pd ma ne ha mutato le caratteristiche principali. Nulla più a che vedere con i partiti del passato, con l’apparato pesante e asfittico, con la centralità degli organismi decisionali, con la militanza di base che passava attraverso gli iscritti e i lunghi dibattiti delle sezioni e dei circoli. Una pagina, questa, superata e ormai non più praticabile all’interno del principale partito italiano. Al contrario, sono altre le peculiarità che caratterizzano oggi il Pd. Velocità decisionale, rapporto “diretto” del leader con il popolo- e non solo con il popolo di riferimento del partito, ma con tutti gli elettori – minor ruolo per le componenti interne e, di conseguenza, un partito emanazione del suo capo e sempre più cartello elettorale. Una impostazione, questa, che ha portato – come tutti sanno – il Pd ad ottenere un consenso al di sopra del 40 per cento alle ultime consultazioni europee. Un partito che, così impostato, inesorabilmente si scontra con i sostenitori del partito del passato, dove la militanza, la discussione nelle sezioni, l’autorevolezza delle dirigenze locali erano centrali rispetto a qualsiasi altra considerazione.
Si tratta, quindi, di una mutazione genetica. Ovvero, di una trasformazione radicale della concezione del partito e del suo ruolo nella società contemporanea. Ma si tratta di due modelli che difficilmente sono compatibili. Al di là e al di fuori di qualsiasi polemica contingente o strutturale. Si confrontano, cioè, 2 modelli di partito dove è difficile, se non impossibile, trovare elementi di reale convergenza politica e culturale. Non voglio dire che una parte deve soccombere rispetto all’altra ma è evidente a tutti che i teorici del “partito pesante” con un forte apparato e una secca militanza radicata in tutti i circoli non è affatto compatibile con un “partito del leader”, veloce nella decisione e organizzato prevalentemente per gestire campagne elettorali e campagne di opinione su singoli temi che portano consenso e simpatia al partito e al suo leader.
Ecco perché il capitolo degli iscritti al Pd, e alla sua progressiva caduta di numeri e di importanza, è destinato a segnare il dibattito all’interno e all’esterno del partito. E proprio su questo tema, apparentemente solo quantitativo e secondario, si giocherà anche l’unità politica, o meno, del Partito democratico.
Un confronto, comunque sia, destinato a segnare la stessa evoluzione dell’intera politica italiana. O meglio, del destino e del ruolo dei partiti politici.
Giorgio Merlo