di Mario Sechi
Di fronte a sconfitte come quelle patite dal Partito Democratico domenica scorsa, per dimensioni, per il significato e la rilevanza politica, per gli effetti e le conseguenze che produrrà sulla città, tutto possiamo fare tranne che cercare risposte o spiegazioni facili, semplici e soprattutto funzionali a collocare fuori e lontano da noi le responsabilità, offrendoci l’illusione che, dando la colpa alla destra, alla rabbia sociale, al governo o a un’agenzia di comunicazione, non si arrivi ad aggredire le vere questioni, le ragioni di fondo che sono alla base di questa sconfitta. Perché è vero che il voto dell’elettorato di destra è stato determinante per la vittoria dell’Appendino, ma è altrettanto vero che in questi ultimi vent’anni la destra c’è sempre stata e ha sempre votato, ma mai era riuscita a determinare in questa città l’esito di un’elezione, neppure quando, fossero elezioni regionali o nazionali, tutt’intorno a Torino, al villaggio di Asterix, la destra vinceva.
Così come è vero che la rabbia sociale delle periferie ha punito come mai era accaduto il Partito Democratico. Ma anche in questo caso quella rabbia è antica, molto precedente alla stessa esperienza amministrativa della giunta Fassino e, a dirla tutta, molto più forte e giustificata in passato, quando c’era Tossic Park, quando la discarica era aperta, quando i campi rom, regolari o abusivi, nei quartieri nord della città, erano sette o otto e non due.
Eppure solo questa volta quella rabbia si indirizza e travolge il Partito Democratico; forse c’è qualcosa di più profondo e grave di un po’ di erba alta.
Gli stessi ragionamenti potrebbero essere dimostrati anche per quel che riguarda delusione e malcontento verso il governo, che certo c’è e che, soprattutto nelle fasce più deboli e colpite dalla crisi (i giovani senza lavoro, i pensionati al minimo) non è ingiustificato.
Allo stesso modo, si potrebbe facilmente dimostrare che gli errori di strategia e comunicazione elettorale, che pure ci sono stati e sono stati gravi, non possono spiegare 100.000 voti che si spostano fra il primo ed il secondo turno, ne le duecento sezioni elettorali nelle quali il Pd letteralmente dimezza i suoi voti. Peraltro, come molto saggiamente qualcuno annotò tempo fa, i problemi di comunicazione non sono mai problemi di comunicazione. Per questo, per quanto tutti questi elementi abbiano pesato sul risultato elettorale, sinceramente non mi convince, ed anzi mi preoccupa, che solo su essi si costruisca un’analisi del voto che sembra fatta apposta per non mettere in discussione equilibri, ruoli e pratiche politiche del Pd torinese.
Insomma, se ciò che è successo è dovuto solo a vicende esterne e ineluttabili, allora, senza neppure aspettare il tempo necessario ad elaborare il lutto, si può riprendere tranquillamente a fare ciò che si è sempre fatto, facendolo fare a chi lo ha sempre fatto. Ed infatti accade che nelle circoscrizioni dove il Pd è stato elettoralmente annientato, gli esponenti del Pd locale, anziché interrogarsi su ciò che è avvenuto, impiegano il loro tempo e si riuniscono per discutere, e litigare senza ritegno e senza pudore, sui posti da coordinatore di commissione circoscrizionale da attribuire a questa o a quella corrente. Interrogarsi su ciò che è avvenuto, ad esempio, può aiutare a comprendere che dietro il malessere delle periferie, a Mirafiori, come alla Vallette o a Falchera, c’è la solitudine profonda di un popolo con il quale abbiamo smesso di parlare non uno, ma vent’anni fa, quando, con l’elezione diretta, abbiamo pensato che i sindaci potessero sostituire il lavoro e la presenza sociale di un partito.
Bastava mandarci ogni tanto Chiamparino, e basta oggi, per spiegare la sconfitta, lamentarsi perché Fassino non ci andava abbastanza. Delegare la politica, tutta la politica, agli amministratori, insomma, così da essere liberi di occuparsi di quello che davvero conta: distribuire un po’ di tessere, quando c’è un congresso e raccogliere le preferenze, quando si vota, a beneficio del maggiorente di riferimento e non è un caso che proprio in quei territori, in quelle circoscrizioni, la figura del capocorrente e del maggiorente di territorio coincidano.
Affrontare il difficile cammino di ricostruzione e rigenerazione che la sconfitta di domenica ci impone richiederebbe una diversa consapevolezza e una disponibilità a rimetterci davvero, e non solo ritualmente, in discussione. Accettare ciò che i nostri elettori ci hanno detto, ovvero che, nonostante cinque anni di ottima amministrazione, nonostante i successi e i risultati raggiunti, nonostante il riconoscimento del lavoro svolto da Fassino, della classe dirigente che ha guidato ininterrottamente Torino per venticinque anni non ne vogliono più sapere e che di un Partito Democratico come quello conosciuto in questi anni non sanno che farsene.
È da qui che dobbiamo ripartire, sapendo che due sono le priorità: rifare il Pd, rigenerandolo nelle fondamenta, ed è una cosa che va fatta contemporaneamente sia a livello nazionale che locale, e lavorando per costruire, nel rapporto con tutta la città, e non con ristretti circoli autoalimentati, una nuova classe dirigente. Ora, per chiuderla qui, ma ci torneremo, fatico a capire cosa c’entri tutto questo con l’annuncio di un congresso straordinario nel quale un migliaio di iscritti portati al voto da tre o quattro capibastone dovrebbero eleggere un nuovo segretario, ovviamente da quei capibastone scelto e indicato.
È questa la risposta a ciò che ci ha travolto? Ripeto, ci torneremo, ma intanto che almeno si faccia lo sforzo di coinvolgere la città, i nostri elettori per capire insieme a loro come rifarlo questo Pd, non solo per trovare un sostituto del segretario in carica, pescandolo dalla panchina della sua corrente.