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venerdì, 18 Ottobre 2024

Cultura, la proposta shock: aboliamo tutti i musei

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In concomitanza con la Settimana Europea del Patrimonio e con il relativo vertice dei ministri della cultura europei i musei torinesi sono rimasti aperti il 23 settembre con ingresso gratuito, dalle ore 18.00 alle ore 24.00. In alcuni casi il prezzo nel restante arco della giornata è stato ribassato a un euro e, come se non bastasse, il ministro Franceschini ha lanciato l’idea di permettere accesso gratuito ai musei tutte le domeniche, permanentemente. Le perplessità cui può dar luogo una simile proposta, tuttavia, non hanno necessariamente a che fare (come farebbero ritenere le reazioni del comune e dell’assessorato regionale) con problemi di bilancio, ma con il fatto che nulla più dei musei è nocivo all’idea di cultura. Quale gesto più gratuitamente ostile nei confronti dell’immane brulichio di storie, gesti e simboli che permea il tessuto urbano, di quello di chi s’infila tra quattro mura e si nega al più grande e importante “patrimonio” della città – quello che, per la sua ineffabilità, resterà per sempre inafferrabile ed evanescente? Facciamoci caso: se il museo è luogo di contemplazione seriale di forme ordinate, e la città scenario della riproduzione da cui quelle sono selezionate, scegliere il primo anziché la seconda sarebbe come congedarsi, per una Penelope, da Circe o Calypso.
Si obietterà che aggirarsi per qualche ora tra quadri e reperti non impedisce l’immersione incantata nella metropoli che li circonda, per il resto della giornata; e che proprio le nozioni storiche, o l’affinamento del gusto, che le collezioni museali si ritiene possano stimolare, consentano al visitatore di inoltrarsi nel restante marasma con maggior scienza e attenzione, grazie ai percorsi organizzati e disciplinati dalle istituzioni. La validità di questo punto di vista non va tuttavia data per scontata. In primo luogo perché, a causa della penetrazione sociale dell’ideologia dei beni culturali, il turista passa nei musei la maggior parte del tempo che, durante la vacanza, non dedica al cibo, al sonno o alla fornicazione (obiettivi primari, più che legittimi, dei viaggi nelle città d’arte): una volta sbarcati ad Atene, Firenze o New York, i visitatori passano in corridoi e tra pareti costellate di oggetti il 50-70% del loro tempo, senza contare che, per ciò che resta, tenderanno a dirigersi dove li conduce la guida turistica (non a caso chiamata in tedesco Führer) ossia in prossimità di luoghi o edifici considerati “must see” dai tecnocrati dell’impresa culturale.
Qui si giunge al secondo punto. Grazie a questo processo, il soggetto deambulante tende a muoversi come in un museo anche quando è fuori: anziché orientarsi curvo sulle targhette con i titoli e gli autori o, talvolta, sui quadri, si barcamenerà con analogo, disciplinato impaccio sotto il cielo che sovrasta monumenti e palazzi, il piccolo Führer sempre (mano) nella mano. Se consideriamo il museo non come luogo fisico ma, più modernamente, come concetto – un format, uno schema organizzativo del nostro interesse – appare chiaro che ogni città che regge parte dei suoi introiti sul turismo è in parte concepita, strutturata e governata come un museo. Assistiamo da decenni, anzitutto in Europa (dove le nozioni di patrimonio e museo sono state concepite, in seguito a una storia al contempo deprimente e complessa) a un mutamento di prospettiva per cui non è la città a contenere il museo, ma il museo la città, secondo un processo di fagocitazione rovesciata dove a una collezione immobile ed esterna si sovrappone un involucro ideologico-pedagogico, intangibile. Città-museo: vi ha dedicato un libro entusiasta, tra gli altri, Agostino Magnaghi, protagonista del piano regolatore torinese di inizio secolo; e all’idea di rendere l’intera Parigi un bene sottoposto a tutela Nicolas Sarkozy dedicò il suo indirizzo inaugurale agli architetti, agli albori del mandato. Dalla concezione della città come reperto recente, attorno a cui costruire una grande teca immaginaria, volta alla governance politico-culturale della sua valorizzazione/trasformazione, non è rimasta immune nemmeno la non europea e dissacrante New York che, nel 2011, ha fatto abortire un progetto di grattacielo troppo vicino all’Empire per salvaguardare lo skyline ereditato dalla sua storia novecentesca.
Questo processo di sovrapposizione tra città e museo sembrerebbe, di primo acchito, dare ragione al ministro e ai suoi omologhi che si sono, a loro volta, rinchiusi a Venaria: se il museo cresce e si dirama, a maggior ragione apparirà legittimo identificare patrimonio e cultura. Eppure la città che diviene museo soffre di diverse, pesanti menomazioni, guarda caso proprio culturali. Una è quella di non essere grande quanto sé stessa, lasciando fuori di sé la maggior parte della creazione culturale concreta: anche là dove il museo si rende diffuso, producendo congelamenti puntuali di settori urbani, a macchia di leopardo, non può non espungere tutto ciò che non rientra nelle nozioni di bene e cultura proprie dell’apparato istituzionale, schiacciate sul passato secondo i crismi del suo culto e della sua agiografia. La seconda menomazione, non meno decisiva, concerne la qualità che viene a mancare a questa quantità parziale, ritratta, secondo l’effetto di eutanasia prodotto dall’azione di conservazione sui lasciti. Essi smettono di essere vissuti secondo i loro potenziali per essere consegnati a un’enigmatica sfera del “già stato”, prossimo nello spazio eppure intoccabile, al solo fine di giustapporvi una coltre auratica che ne mummifica sovente l’aspetto e sempre il portato storico (rendendone difficile una decifrazione libera da simili effetti di trasfigurazione para-cultuale).
Non a caso i centri storici italiani, una volta museificati, divengono il contrario di ciò che furono (luoghi di travolgente sperimentazione edilizia, economica, sociale, ecc.) insinuando una pesante contraddizione nella logica stessa della conservazione, che deporta economicamente quelle stesse sperimentazioni nelle periferie, per poi fagocitarne il vissuto di nuovo, a ritmo sincopato, in seguito alla “riqualificazione” (leggi: normalizzazione) successiva. Nei quartieri della città-museo, infatti, ogni forma di movimento è vissuta con sospetto e possibilmente vietata: dal traffico automobilistico (oscena, inaccettabile irruzione della forza-lavoro e delle merci nella sfera del tempo “libero” consacrato alla cultura, dove le merci possiedono tanto più valore quanto più dissimulano la loro natura, in un disarmante feticismo capovolto) alle manifestazioni politiche, fino a ogni comportamento che non segua la procedura ticket-ingresso/parcheggio-ticket, dove tutta la proprietà immobiliare è concentrata nelle mani delle istituzioni politiche e finanziarie che investono e governano questi processi. I turisti, dal canto loro, venerati come consumatori, disprezzati come barbari e, in fondo, considerati ingiustamente degli idioti dall’insieme della cittadinanza, vengono intruppati attorno ai punti informativi o lungo le eterne code lungo le quali agognano la sfera sacrale e separata, e perciò sottratta ad ogni contemplazione critica, dell’antico e dell’arte.
Il concetto di museo è così, in fin dei conti, un itinerario spaziale e intellettuale didascalico, tanto più censorio perché non fondato sull’imposizione “violenta” di un discorso, ma sull’ignoranza indotta di ogni possibile percorso alternativo. È una lista astratta di istruzioni su come attraversare la città e la sua storia, su come farsi dirottare nel ramo dell’industria che è chiamato a sostituire quelli andati in crisi, spezzati in seguito a storie di cui non è stata disposta la conservazione. L’itinerario-museo è frutto di una concezione escludente della cultura, intesa come catalogo ufficiale di ciò che è stato, stilato dal potere esistente, le cui prime vittime sono proprio gli oggetti affastellati uno accanto all’altro senza rispetto per la loro autonomia estetica, come al mercato del bestiame; o gli edifici e i paesaggi urbani sottratti per sempre ad un uso sociale, invisibilmente incelofanati per divenire “simulacri vuoti, cari estinti” (Terranova). Musei concentrati o diffusi, aperti prima o dopo le sei, gratis, a pagamento o a un euro, la domenica o il lunedì, diciamo basta: la cultura non è un “mondo” (improbabile elemento specifico, che sarebbe impossibile nominare); essa è tutto ciò che siamo. Fenomeno materiale, prodotto concretamente qui e ora da tutti gli esseri umani, essa si contrappone all’imposizione scolastica, istituzionale e turistico-industriale della cultura come museo, ridotta a risibile caricatura in seguito a un conflitto irrisolto della civiltà industriale. Se c’è qualcosa della cui conservazione non dobbiamo curarci, tra ciò che in Europa è stato prodotto come cultura, è proprio lei: la cultura della conservazione.
 

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