Gli ultimi mesi di vita di Pier Paolo Pasolini (Massimo Ranieri), dall’estate 1975 alla morte tragica, e ancora misteriosa, la notte tra l’uno e il 2 novembre 1975, all’idroscalo di Ostia. Pasolini sta lavorando al montaggio del suo ultimo film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (che uscirà postumo); contemporaneamente si dedica in maniera febbrile alla stesura di “Petrolio”, mix tra saggio, romanzo e inchiesta, con al centro la figura di Eugenio Cefis, capo dell’Eni, controverso personaggio della storia imprenditoriale e finanziaria degli anni ‘60-’70. Quando alcune “pizze” di girato di “Salò” vengono rubate da dei landruncoli (vicini ad ambienti neofascisti), Pasolini cercherà di recuperarle, andando incontro a un tranello mortale, sulla spiaggia di Ostia, in una notte tiepida di inizio novembre.
David Greco, assistente alla regia di alcuni film di Pasolini e suo collaboratore, firma un film contradditorio sul più poliedrico e discusso intellettuale italiano del Novecento. Ne esce un ritratto privato discutibile, affidato a un intenso Massimo Ranieri che accetta una scommessa molto difficile, uscendone in maniera più che dignitosa, con personaggi di contorno più riusciti (la madre, il misterioso informatore su Cefis, lo stesso giovane Pelosi), altri davvero ridotti a macchiette: la banda di neofascisti sembra una caricatura tutta romanaccia di “Romanzo Criminale”. Non a caso il film diventa poco riuscito proprio nella descrizione del complotto alle spalle di Pasolini, dove si intrecciano poteri forti interessati a togliere di mezzo uno scomodo intellettuale: il gorgo fangoso in cui si intuiscono massoneria, neofascismo romano, piccola criminalità, ragazzi di vita, Chiesa compiacente, politica collusa, Banda della Magliana e servizi deviati, dà nel vago e diventa inefficace. Suggestiva la scelta musicale dei Pink Floyd, quanto poco azzeccato il taglio visionario di alcune scene immaginifiche (le allucinazioni di Pasolini dopo l’intervista al giornalista francese, le trivelle del petrolio nel finale).
Una cosa è certa, anche questo film ci consegna una duplice verità: la versione della morte del Poeta (come lo definì Moravia al funerale), dopo oltre 40 anni, non regge e continua a perdere pezzi, senza però permetterci di arrivare davvero a una verità chiara; in secondo luogo, probabilmente, dobbiamo convivere con l’idea che raccontare Pasolini al cinema non si riesce a fare: perché era troppo, come uomo e come intellettuale (una dimensione duplice che era praticamente impossibile scindere), nelle sue luci e nelle sue ombre. Era il gigante Pasolini, e noi così piccoli. Bigger than life, come dicono gli americani. Ma che amarezza oggi dover ammettere di non averlo capito e difeso, di più e meglio, quando era tra noi!