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lunedì, 2 Dicembre 2024

Turchia, le pretese "magnifiche" di Erdogan

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

Per rendersene conto è sufficiente mettere piede fuori dall’Ataturk Airport, osservando il tumulto irrefrenabile di taxi e autobus, o fare una passeggiata nel quartiere storico di Sultanahmet, incassando i tanti “you are welcome” sui cigli dei negozi e dei bar, oppure spingersi lungo Divan Yolu Caddesi, in direzione dell’Università, seguendo il fiume cosmopolita di un Paese in movimento, senza considerare l’altro mondo brulicante sulla sponda asiatica di Istanbul. La Turchia sfida il moderno. Questo non è l’incipit di una guida turistica, ma il tentativo di restituire un’immaginaria panoramica sull’epopea trasformatrice della Turchia, che ha in Istanbul il centro simbolico di uno scontro sociale politico e culturale che però si dirama soprattutto al di fuori di quella che fu Costantinopoli…
La piazza proibita
Sono ancora vive le ferite della battaglia per la conquista di piazza Taksim, instancabile è l’energia contagiosa di chi non vuole arrendersi al premier islamico Recep Tayyip Erdogan. Qualche giorno fa, il 1° maggio, le differenti sfaccettature del movimento istanbulese hanno nuovamente tentato la presa dell’importante piazza negata. 40mila i poliziotti schierati, 50 i cannoni d’acqua adoperati, quasi un coprifuoco quello dichiarato a partire dalle 6 e mezza del primo giorno di maggio. Metro, traghetti, dolmus e taxi bloccati, in una metropoli paralizzata e deserta nel suo centro. «Devono perdere le speranze di raggiungere piazza Taksim» aveva annunciato Erdogan, il quale si è comportato di conseguenza per respingere ogni tentativo e proteggere il cuore d’Istanbul: barriere metalliche, lacrimogeni urticanti, cannoni d’acqua, manganellate delle forze dell’ordine. In Turchia il 1° maggio è diventato festa nazionale soltanto nel 2009, assumendo un valore simbolico gigantesco, per l’internazionale ricorrenza ma anche per mantenere viva la memoria di un maledetto 1° maggio 1977, giorno nel quale in piazza Taksim le forze di polizia con la collaborazione dell’estrema destra e dei servizi segreti aprirono il fuoco contro il movimento operaio turco, massacrando 34 persone. Da oltre trent’anni la piazza resta proibita: quella di giovedì scorso non è l’ultima occasione per espugnare Taksim, la sfida si ripresenterà.
La Tangentopoli turca
Belkin Elvan, 15enne morto dopo essere stato colpito da un candelotto di gas lacrimogeno dalla polizia, è stato solamente l’ultima scintilla di una sommossa ondivaga per le vie della Turchia, diventando una miccia accesa per le proteste contro la corruzione. Le battaglie per le laicità dello Stato, lo scontro del potere politico con quello militare, la battaglia per Gezi Park: sono queste le più recenti e importanti tappe della mappa dei conflitti della Turchia, oggi sulla scena c’è la bolla della Tangentopoli turca. La diatriba è esplosa lo scorso dicembre con l’apertura di uno scandalo di corruzione che ha portato ad arresti eccellenti nella cerchia vicina al primo ministro, il quale ha contrattaccato spostando migliaia di ufficiali di polizia e centinaia di magistrati. A febbraio hanno cominciato a trapelare le intercettazioni telefoniche in cui Erdogan e suo figlio parlavano di come far sparire le tracce di tangenti ricevute, quindi il premier ha fatto approvare una legge che permette al governo di oscurare piattaforme internet anche senza ordine della magistratura. La mannaia governativa non si è fermata qua: la riforma del Consiglio superiore della magistratura ha sottratto e sbilanciato altri poteri a favore del Governo, una legge ha espanso l’autorità dei servizi segreti del Mit per implementare controllo e repressione, un provvedimento ha previsto fino a 10 anni di galera per i giornalisti che pubblicano fughe di notizie. Lo scandalo ha causato un’epurazione di 5mila dirigenti e agenti della polizia, di 96 giudici e di 10 ministri. La ribellione conseguita all’omicidio del giovane Elvan, il blocco di Twitter e di YouTube, a ridosso delle elezioni amministrative, avevano fatto sperare qualcuno in una possibile interruzione della marcia di Erdogan, ma così non è stato, segno della diramazione di potere costruita negli anni dal premier e del consenso seminato meticolosamente nelle zone rurali della Turchia.
Tris nemico
Prima l’ordine all’autorità per le telecomunicazioni di oscurare Twitter e YouTube, accusandoli di aver messo on line intercettazioni telefoniche illegali, bisticciando con la Corte costituzionale che li ha riattivati. Poi il sequestro di 2 soldati turchi da parte di un gruppo armato kurdo, rifocillando il conflitto con il Pkk, formazione kurda esacerbata dal fallimento del processo di pace e dalla detenzione del leader Abdullah Ocalan. Infine la richiesta di estradizione agli Stati Uniti di Fehtullah Gülen, predicatore islamico, proprietario di una fitta rete di scuole e istituzioni caritatevoli in Turchia e nel mondo, che è stato grande alleato politico del primo ministro prima di diventare il suo più temibile nemico. Un tris di problematiche politiche che ha aggiunto ulteriori rogne al governo di Erdogan, che comunque ha saputo fronteggiare le ripetute crisi.
Il premier turco non ha ancora annunciato la sua candidatura per le elezioni presidenziali di agosto, ma ha già organizzato un prossimo tour europeo in Germania, Paesi Bassi e Francia per raccogliere simpatie e adesioni e finanziamenti. Una mossa furba quella di Erdogan, considerando che sono quasi 3 milioni i turchi che vivono all’estero. Le amministrative di marzo hanno consegnato al primo ministro un ottimo segnale sulla tenuta del governo di un provinciale ometto che s’atteggia da Solimano I detto il Magnifico.
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