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lunedì, 2 Dicembre 2024

Thyssen, Pucci solleva la vera questione: “Non dovevamo essere condannati noi manager”. E invece…

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Redazione
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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

di Alberto Gaino

Dedicato a Luigi Mara.
Mara è stata una grande figura delle lotte per la sicurezza del lavoro. Biologo, nel 1967 perse entrambe le le mani mentre lavorava in un laboratorio della Montedison di Castellanza. Da allora si è dedicato con grande cuore e professionalità alla sicurezza dei lavoratori. Anche nel processo ThyssenKrupp ha svolto un ruolo significativo come consulente di parte civile ricostruendo le varie fasi della lavorazione dell’acciaio sulla linea 5 ed evidenziando i gravi limiti delle procedure di sicurezza. Luigi Mara è improvvisamente mancato nei giorni scorsi all’età di 77 anni.

Luigi Mara
Luigi Mara

Marco Pucci è uno dei quattro dirigenti italiani della ThyssenKrupp condannati e per questo motivo, diventata definitiva la sentenza per la morte dei 7 operai torinesi della multinazionale, da alcuni giorni sono in carcere. Marco Pucci è stato il solo di loro a non esserci finito in silenzio e ad aver consegnato ad un blog una lettera in cui protesta la sua innocenza e quella dell’amministratore delegato Harald Espenhahn. Il suo sfogo è umanamente legittimo e sarebbe più comprensibile se fosse stato speso anche per mostrare vera empatia verso le vedove, gli orfani, le madri dei sette operai morti, da quasi otto anni e mezzo, in un terribile rogo che ha avuto il segno dell’abbandono in cui erano state lasciate le tute blu dello stabilimento torinese.

Semmai, nella sua lettera, Marco Pucci cita quelle vedove e madri a sostegno del suo sentirsi a sua volta vittima di una sentenza ingiusta. Ecco, questo non glielo si può concedere. Così come mi ha colpito vedere sui giornali la fotografia di una parte di quelle stesse donne che gioivano per la sentenza della Cassazione. Anche il loro è stato uno sfogo, dopo molte ore di tensione per l’attesa della sentenza resa più incerta dalla scioccante richiesta del procuratore generale Paola Filippi di azzerare il processo e di ripartire da un nuovo giudizio di appello – il terzo – in cui le ragioni delle attenuanti, a quel punto prevalenti sulle aggravanti, avrebbero dovuto essere riconsiderate.

Marco Pucci il manager condannato per la strage alla Thyssen
Marco Pucci il manager condannato per la strage alla Thyssen

Se la loro esplosione di gioia è stata anche una reazione liberatoria, tuttavia non è stata solo emotiva. Troppe volte alcune di quelle donne hanno urlato nelle aule di tribunale all’indirizzo degli imputati presenti “dovete morire bruciati pure voi, insieme ai vostri figli”. Dopo otto anni un tale odio appare molto diverso da una sacrosanta rabbia. E’ il segno di qualcosa che è morto dentro quelle stesse persone, più forte di un dolore che non ha, non può avere fine, e fa provare a chi lo percepisce e vede quell’immagine da stadio una pena dolorosa.

Rocco Marzo e alcuni dei suoi compagni, tutti coloro che erano diventati padri, hanno lasciato nove orfani. Marco Pucci avrebbe potuto ricordarsene nella sua lettera e non chiamarsi semplicemente fuori da un processo in cui è stato accanitamente e strenuamente difeso dai suoi avvocati. Marco Pucci è stato condannato perché, come consigliere delegato, faceva parte del board aziendale chiamato a condividere le scelte dell’amministratore delegato, fra cui quella decisiva di non spendere le risorse appena messe a disposizione dal vertice tedesco della ThyssenKrupp per gli investimenti in sicurezza degli impianti fin quando non fossero stati trasferiti da Torino a Terni e fosse stato definitivamente chiuso lo stabilimento di corso Regina Margherita.

Rocco Marzo e i suoi sei colleghi sono arsi vivi la notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007 per 900 mila euro risparmiati e forse qualcosa di più, dal momento che neppure si provvedeva più alla manutenzione dei flessibili in cui “passava” ad altissima pressione l’olio oleodinamico necessario al bestione di 300 metri di lunghezza e una dozzina di altezza – la linea 5 – per ricuocere e raffreddare i laminati d’acciao della Thyssen. Usurati, alcuni di quei flessibili si lacerarono, uno dopo l’altro, e una nube di olio bollente e fuoco nebulizzò sette vite in un amen.

Ha un bel dire Marco Pucci nella sua lettera che “tiravano a lucido” lo stabilimento ad ogni nuova visita di Espenhahn. Era vero. Ma era anche vero che Espenhahn si documentava minuziosamente sui report di produttività di Torino, sul budget speso e risparmiato: era un amministratore coscienzioso e, soprattutto, preparato ed esperto. E’ stato condannato, insieme ai suoi più stretti collaboratori, per omicidio colposo plurimo aggravato dalla consapevolezza che potesse verificarsi un grave incendio – ve ne erano di continuo – e per aver considerato in buona sostanza un’acciaieria alla stregua di un impianto industriale non pericoloso. Quello di corso Regina Margherita lo era: rientrava nei vincoli severissimi previsti per le aziende ad alto rischio dalla legge Seveso. Eppure, quel grande impianto non aveva neppure il certificato antincendio.

I familiari delle vittime della Thyssen alla lettura della sentenza
I familiari delle vittime della Thyssen alla lettura della sentenza

Marco Pucci protesta che non sapeva, non si sapeva che lo stabilimento torinese doveva chiudere. Come no? Doveva essere già chiuso la notte del 6 dicembre 2007, per due volte la chiusura ne era stata rinviata e chissà se a febbraio 2008, ultima data stabilita per spegnere tutti gli impianti a Torino, gli operai ne avrebbero varcato i cancelli per non tornarvi più non fosse accaduto nulla nel frattempo. E invece c’è stata una tragedia, la tragedia che ha chiuso la fabbrica.

Nella sua lettera Marco Pucci dice tante cose, ma in sostanza ne dice una per tutte: non dovevano essere loro, i manager, ad essere condannati e meno che mai al carcere – una doppia anomalia per la tradizione giudiziaria italiana – ma, semmai, quelli che stavano in basso nella gerarchia del potere aziendale: i capi officina. Com’è sempre avvenuto, ancora una volta nella tradizione giudiziaria italiana. E invece, per una volta che una tragedia così grande e devastante si è verificata nell’acciaieria di una multinazionale, e non in un aziendina, si sono effettuate indagini moderne ed efficaci, sono state compiute perquisizioni nella sede della direzione generale di Terni, sequestrati computer, esaminate decine di migliaia di documenti cartacei e di file elettronici. Per scoprire e poter dimostrare che il vertice dello stabilimento torinese aveva un’autonomia decisionale e di spesa limitata. Per una volta la magistratura è parsa all’altezza delle aspettative di giustizia.

Ma, e qui arrivo in fondo a questa amara riflessione, che quattro persone siano finite in carcere sembra diventare per una parte dei media e dell’opinione pubblica un’anomalia incresciosa. C’è stato un tempo, non lontano in cui un ministro di Grazia e Giustizia aveva fatto ritirare dalle aule di tribunale i cartelli “La giustizia è uguale per tutti” per sostituirli con il motto “La giustizia è amministrata in nome del popolo”.
Quale popolo? Quello dei redditi zero, dei precari pagati con i voucher, degli assunti a tempo indeterminato che con il job act rischiano di doversene tornare a casa da un giorno all’altro, della sicurezza che torna ad essere un optional perché il lavoro che c’è quando c’è ed è così prezioso per una famiglia che non si bada più al resto? In quale Italia dobbiamo vivere? Quella in cui Marco Pucci, nonostante le sentenze di condanna per i morti della ThyssenKrupp, per carità allora non definitive, è stato nominato direttore generale dell’Ilva di Taranto (per ora statalizzata) e ha rinunciato all’incarico quando quelle stesse vedove e madri di Torino, giustamente, hanno alzato la voce per fare sentire il loro sdegno al resto degli italiani: una maggioranza che oggi ha poca voce.

 

thyssenlutto

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