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giovedì, 19 Settembre 2024

L’autocrazia azera minaccia nuovamente l’Armenia nel disinteresse generale

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Moreno D'Angelo
Moreno D'Angelo
Laurea in Economia Internazionale e lunga esperienza avviata nel giornalismo economico. Giornalista dal 1991. Ha collaborato con L’Unità, Mondo Economico, Il Biellese, La Nuova Metropoli, La Nuova di Settimo e diversi periodici. Nel 2014 ha diretto La Nuova Notizia di Chivasso. Dal 2007 nella redazione di Nuova Società e dal 2017 collaboratore del mensile Start Hub Torino.

L’Armenia è di nuovo sotto la pressione della vorace autocrazia azera.

Il nazionalismo trionfa. Dopo la conquista del Nagorno Karabakh che, nel settembre 2023, ha determinato  l’esodo  della popolazione cristiana (120mila persone) da terre in cui  erano presenti da millenni, vede ora l’Azerbaijan persistere nelle richieste territoriali. Di fronte all’ultimatum  “cessione o bombe” il premier armeno  Nikol Pashinian è stato costretto a cedere quattro villaggi, nel nord del paese, sperando in una prospettiva di pace e una soluzione diplomatica. Un fatto  che certo non ha placato le mire azere, avallate dai fratelli turchi. 

Per l’Armenia  non si intravvedono  grandi alternative se non sperare in un ullteriore e auspicato avvicinamento alla Comunita Europea (con cui sussiste  un accordo di partenariato globale, rafforzato nel 2021).  Una realtà tra oriente occidente  di appena 2milioni e 800mila abitanti,  tra i monti del Caucaso meridionale, famosa per il biblico monte Ararat dell’arca di Noè. Un Paese ricchissimo  di storia e antichi monasteri (fu il primo regno cristiano nel 300 d.C.), ma povero economicamente, specie in raffronto  all’eccezionale  boom finanziario  registrato da Baku grazie a petrolio e  consistenti investimenti.   Una ricchezza che silenzia di fatto le proteste della comunità internazionale.   

Il regime di Baku ora pretende nuovi territori e pochi ritengono che si fermeranno a qualche villaggio. Un regime  che ha appena, ce ne fosse bisogno, mostrato i muscoli. esaltando il suo spirito patriottico, con una parata militare a Stepanakert, in quella che era l’ex capitale dell’enclave cristiano chiamato dagli armeni  Artsakh.  Una prova di forza che si basa sulla netta superiorità militare e sulla scarsa solidarietà internazionale che registra Yerevan.  E’ da sottolineare come l’annessione del Nagorno Karabakh (2023),   dopo un prolungato isolamento che ha portato alla fame un intera comunità , sia stato possibile per il non intervento degli alleati russi che, da protettori in chiave anti azera, si sono astenuti da ogni intervento dopo le reiterate propensioni europeiste del governo armeno. 

L’Armenia è una terra, piena di storia, di grandi sofferenze e conflitti che, poco dopo essere stata proclamata  repubblica indipendente nel 1918,(toccata dalle conseguenze del genocidio operato e mai ammesso dai turchi)  fu annessa dalla Russia di Lenin  dopo una tenace resistenza (1920),  per poi ritornare indipendente, dopo l’implosione dell’impero sovietico, nel 1991. I due nazionalismi, quello armeno e quello azero, non sono mai riusciti a sviluppare forme di condivisione restando in uno stato di perenne tensione  che ha causato ben tre sanguinosi conflitti in quella terra poco sconosciuta detta Nagorno Karabakh.  L’ultima, nel settembre 2023 ha portato alla fine dell’enclave cristiano.  Come se si fosse aperta una pentola a pressione, subito dopo la fine dell’Unione sovietica, appena costituiti  i due nuovi stati indipendenti, si è  dato corso al primo conflitto (tra il 1992 e il 1994) che vide prevalere gli armeni in terre abitate da una maggioranza azera.  Anche gli armeni non furono certo scevri da spiriti nazionalistici.   La seconda guerra nel 2020 fu particolarmente sanguinosa e vide prevalere un Azerbaijan molto più ricco e armato. Fu la premessa dello scontro, o meglio della guerra lampo, che in pochi giorni nel  2023 determinò il successo azero. Una vittoria che ha aumentato le mire espansionistiche di Baku,  rendendo aria fritta i propositi pacifisti e di collaborazione annunciati dopo la fine dell’enclave cristiano. 

E’ giusto rilevare come anche nel regime azero fosse presente una sparuta minoranza impegnata sui  diritti umani  e per la pacifica convivenza con i cristiani. Voci di  minoranze che le vittorie militari hanno ridotto al lumicino, esaltando i successi del  regime del clan familiare degli Aliyev. Un paese sempre più ricco  in cui i diritti civili e gli spazi per un barlume di opposizione sono di fatto nulli. 

Le cronache di questi giorni hanno riportato di una sparatoria e dell’esplosione di una granata, che ha causato dei feriti in commissariato di polizia nel distretto Nor-Nork di Yerevan. Tre gli attentatori,  di cui uno (secondo quanto rilevato da un corrispondente dell’agenzia russa Tass) avrebbe richiesto le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan.

Dietro l’attentato si ipotizza l’azione di una “fratellanza” di soldati reduci dalla seconda guerra del Nagorno Karabakh (2020), delusi dalla sparizione della repubblica separatista  cristiana e dalla resa del governo di Yerevan dopo tanti morti. 

Intanto continuano a soffiare venti di guerra. il regime azero, guidato con il pugno di ferro da  Ilham Aliyev, (al quinto mandato consecutivo, forte della rielezione plebiscitaria con il 92%, senza dopposizione e  media indipendenti), è di nuovo  pronto per riprendere gli scontri  ridando forza alle mire espansionistiche che intendono creare un ponte verso i fratelli turchi. Un quadro che, oltre al consenso che un tempo si sarebbe detto “bulgaro”, può contare sui successi militari che hanno esaltato lo spirito patriottico e sul boom  economico finanziario del Paese sempre più oggetto di attenzioni e investimenti. 

Per il regime di Baku si tratta dell’operazione “grande ritorno” che non pare incontrare seri ostacoli. Un piano  di espansione  per ripopolare di azeri le terre strappate agli armeni nel silenzio,o tra qualche borbottio,  della comunità internazionale. Un silenzio che, in nome del fiume di oro nero e di interessi finanziari,  riilancia in pieno il mai sopito progetto di comprendere l’enclave di Nakhicevan.

Pochi osservatori credono alle diplomatiche promesse di civile convivenza espresse, dopo la fine dell’ennesimo conflitto, e ritengono che una ripresa dei combattimenti possa  essere vicina.

Un ennesimo fronte di guerra che vede prevalere le decise e ricche autocrazie in barba ad  ogni discorso di pace. 

Qualche mese fa  dopo la sparizione del’Artsakh  avevo intitolato un pezzo  “Chi se ne frega degli armeni”, dopo sei mesi le cose non sembrano cambiate. Da rilevare come sul fronte mediatico si riscontri l’attenzione di fatto solo di media di area cattolica come l’Avvenire e   Il Tempo.

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