L’Armenia è di nuovo sotto la pressione della vorace autocrazia azera.
Il nazionalismo trionfa. Dopo la conquista del Nagorno Karabakh che, nel settembre 2023, ha determinato l’esodo della popolazione cristiana (120mila persone) da terre in cui erano presenti da millenni, vede ora l’Azerbaijan persistere nelle richieste territoriali. Di fronte all’ultimatum “cessione o bombe” il premier armeno Nikol Pashinian è stato costretto a cedere quattro villaggi, nel nord del paese, sperando in una prospettiva di pace e una soluzione diplomatica. Un fatto che certo non ha placato le mire azere, avallate dai fratelli turchi.
Per l’Armenia non si intravvedono grandi alternative se non sperare in un ullteriore e auspicato avvicinamento alla Comunita Europea (con cui sussiste un accordo di partenariato globale, rafforzato nel 2021). Una realtà tra oriente occidente di appena 2milioni e 800mila abitanti, tra i monti del Caucaso meridionale, famosa per il biblico monte Ararat dell’arca di Noè. Un Paese ricchissimo di storia e antichi monasteri (fu il primo regno cristiano nel 300 d.C.), ma povero economicamente, specie in raffronto all’eccezionale boom finanziario registrato da Baku grazie a petrolio e consistenti investimenti. Una ricchezza che silenzia di fatto le proteste della comunità internazionale.
Il regime di Baku ora pretende nuovi territori e pochi ritengono che si fermeranno a qualche villaggio. Un regime che ha appena, ce ne fosse bisogno, mostrato i muscoli. esaltando il suo spirito patriottico, con una parata militare a Stepanakert, in quella che era l’ex capitale dell’enclave cristiano chiamato dagli armeni Artsakh. Una prova di forza che si basa sulla netta superiorità militare e sulla scarsa solidarietà internazionale che registra Yerevan. E’ da sottolineare come l’annessione del Nagorno Karabakh (2023), dopo un prolungato isolamento che ha portato alla fame un intera comunità , sia stato possibile per il non intervento degli alleati russi che, da protettori in chiave anti azera, si sono astenuti da ogni intervento dopo le reiterate propensioni europeiste del governo armeno.
L’Armenia è una terra, piena di storia, di grandi sofferenze e conflitti che, poco dopo essere stata proclamata repubblica indipendente nel 1918,(toccata dalle conseguenze del genocidio operato e mai ammesso dai turchi) fu annessa dalla Russia di Lenin dopo una tenace resistenza (1920), per poi ritornare indipendente, dopo l’implosione dell’impero sovietico, nel 1991. I due nazionalismi, quello armeno e quello azero, non sono mai riusciti a sviluppare forme di condivisione restando in uno stato di perenne tensione che ha causato ben tre sanguinosi conflitti in quella terra poco sconosciuta detta Nagorno Karabakh. L’ultima, nel settembre 2023 ha portato alla fine dell’enclave cristiano. Come se si fosse aperta una pentola a pressione, subito dopo la fine dell’Unione sovietica, appena costituiti i due nuovi stati indipendenti, si è dato corso al primo conflitto (tra il 1992 e il 1994) che vide prevalere gli armeni in terre abitate da una maggioranza azera. Anche gli armeni non furono certo scevri da spiriti nazionalistici. La seconda guerra nel 2020 fu particolarmente sanguinosa e vide prevalere un Azerbaijan molto più ricco e armato. Fu la premessa dello scontro, o meglio della guerra lampo, che in pochi giorni nel 2023 determinò il successo azero. Una vittoria che ha aumentato le mire espansionistiche di Baku, rendendo aria fritta i propositi pacifisti e di collaborazione annunciati dopo la fine dell’enclave cristiano.
E’ giusto rilevare come anche nel regime azero fosse presente una sparuta minoranza impegnata sui diritti umani e per la pacifica convivenza con i cristiani. Voci di minoranze che le vittorie militari hanno ridotto al lumicino, esaltando i successi del regime del clan familiare degli Aliyev. Un paese sempre più ricco in cui i diritti civili e gli spazi per un barlume di opposizione sono di fatto nulli.
Le cronache di questi giorni hanno riportato di una sparatoria e dell’esplosione di una granata, che ha causato dei feriti in commissariato di polizia nel distretto Nor-Nork di Yerevan. Tre gli attentatori, di cui uno (secondo quanto rilevato da un corrispondente dell’agenzia russa Tass) avrebbe richiesto le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan.
Dietro l’attentato si ipotizza l’azione di una “fratellanza” di soldati reduci dalla seconda guerra del Nagorno Karabakh (2020), delusi dalla sparizione della repubblica separatista cristiana e dalla resa del governo di Yerevan dopo tanti morti.
Intanto continuano a soffiare venti di guerra. il regime azero, guidato con il pugno di ferro da Ilham Aliyev, (al quinto mandato consecutivo, forte della rielezione plebiscitaria con il 92%, senza dopposizione e media indipendenti), è di nuovo pronto per riprendere gli scontri ridando forza alle mire espansionistiche che intendono creare un ponte verso i fratelli turchi. Un quadro che, oltre al consenso che un tempo si sarebbe detto “bulgaro”, può contare sui successi militari che hanno esaltato lo spirito patriottico e sul boom economico finanziario del Paese sempre più oggetto di attenzioni e investimenti.
Per il regime di Baku si tratta dell’operazione “grande ritorno” che non pare incontrare seri ostacoli. Un piano di espansione per ripopolare di azeri le terre strappate agli armeni nel silenzio,o tra qualche borbottio, della comunità internazionale. Un silenzio che, in nome del fiume di oro nero e di interessi finanziari, riilancia in pieno il mai sopito progetto di comprendere l’enclave di Nakhicevan.
Pochi osservatori credono alle diplomatiche promesse di civile convivenza espresse, dopo la fine dell’ennesimo conflitto, e ritengono che una ripresa dei combattimenti possa essere vicina.
Un ennesimo fronte di guerra che vede prevalere le decise e ricche autocrazie in barba ad ogni discorso di pace.
Qualche mese fa dopo la sparizione del’Artsakh avevo intitolato un pezzo “Chi se ne frega degli armeni”, dopo sei mesi le cose non sembrano cambiate. Da rilevare come sul fronte mediatico si riscontri l’attenzione di fatto solo di media di area cattolica come l’Avvenire e Il Tempo.