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domenica, 9 Febbraio 2025

La perdita dell’anima

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

Fresco di stampa circola nelle librerie un libro di Nino Aragno editore, “Gli anni della violenza e della contestazione”. Gli autori – Arturo Carlo Jemolo e Carlo Casalegno – non sono da tempo più tra noi. Ma Aragno, nella collana diretta dal presidente dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte, Alberto Sinigaglia, ne ha curato il carteggio che va dal 1965 al 1977, anno in cui s’interrompe per la violenta morte del secondo. L’altro gli sopravviverà fino al 1981.

Dodici anni sono un arco temporale relativamente breve, se vogliamo, ma dal 1965 al 1977 l’Italia cambiò più volte sotto gli occhi di quegli apprezzati maestri di vita. Arturo Carlo Jemolo, giurista, docente universitario, liberale e cattolico, ha insegnato ad intere generazioni di studenti la strada maestra nel rapporto  tra Chiesa e Stato, tra religiosità e laicismo. Allievo di Francesco Ruffini, uno dei dodici docenti universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al Fascismo nel 1931, Jemolo fu un anticoncordatario, mai incline a ricercare il consenso della riva destra del Tevere e delle gerarchie pontificie. Collaboratore de La Stampa contribuì con i suoi editoriale ed interventi in Terza pagina a dare una dimensione finemente intellettuale unita ad un rigore pedagogico d’invito alla cultura ai lettori del quotidiano allora in via Marenco. In un giornale che negli anni Settanta schierava storici del calibro di Luigi Salvatorelli e Giovanni Spadolini, interpreti del motto ottocentesco “libero Stato in libera Chiesa” Arturo Carlo Jemolo assicurò una posizione di grande ascolto nella più totale indipendenza dalla Chiesa cattolica, che viveva epocali trasformazioni sotto la spinta del Concilio Vaticano II.

Carlo Casalegno, uomo di fiducia del mitico direttore Giulio De Benedetti, vicedirettore sotto Arrigo Levi, lo si è ricordato di recente a Torino nella giornata dedicata alla vittime del terrorismo. La sua vita fu stroncata dalla colonna torinese delle Brigate Rosse, terroristi “esasperati” dalle sue sferzanti prese di posizione che apparivano nella sua rubrica Il nostro Stato. Da uomo coraggioso, combattente nella Resistenza, seppe sacrificare la sua vita per i suoi ideali. E in nome della libertà e, aggiungo, di un giornalismo libero.

E qui veniamo, finalmente, si dirà, alla ragione dell’intervento suggerita dalla prima frase del libro, contenuta nella prefazione: “I giornali hanno un’anima. L’avevano”. Cui fa seguito un appassionato racconto di che cosa significa avere titolo per garantire l’informazione vera. “Significa possedere i ferri del mestiere, la tecnica e il senso di responsabilità per usarli. Era quanto i direttori pretendevano un tempo da chi arruolavano a costituire quell’anima. Se si trattava di giornalisti la redazione era la scuola: un loro articolo sarebbe stato riscritto tre volte e didascalie e titoli cestinati di più”.

Scuola quotidiana, appunto, che non esiste più. Smantellata a favore di altre scuole, ma a pagamento. Dove s’insegnano articoli, didascalie e titoli con grande perizia ed efficacia tutte però virtuali e in assoluta indipendenza… ma dall’anima.

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