Il governo di Matteo Renzi non sta vivendo giorni particolarmente felici, anche se il premier dal tweet facile difficilmente lo ammetterà. I dati che, periodicamente, arrivano dall’Istat (Istituto nazionale di statistica), non lo aiutano. La disoccupazione giovanile galoppa al 44,2%, quella complessiva si attesta al 12,3% e le previsioni per il trimestre in corso sono alquanto negative.
Secondo l’Istat, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni ad agosto è stato del 44,2%, in aumento di un punto percentuale rispetto al mese precedente e di 3,6 punti nei dodici mesi. Nel calcolo non sono presenti i giovani inattivi, quelli che non sono occupati e non cercano lavoro. Il tasso dello scorso agosto rappresenta il livello più alto mai raggiunto dal 2004, inizio delle serie storiche mensili, e dal 1977, inizio delle pubblicazioni delle serie storiche trimestrali. Il numero dei giovani disoccupati è stimato nell’ordine delle 710mila unità, mentre il numero complessivo di disoccupati gira sopra ai 3 milioni. Ad agosto l’Istat ha registrato un calo del 2,6%, rispetto a luglio, dei senza lavoro: un dato positivo che però si ridimensiona dinnanzi alla difficilissima realtà della crisi italiana, soprattutto se questi numeri vengono analizzati e comparati anche con il tempestoso tasso di inattività, pari al 36,4%, che continua a crescere e che non può essere spiegato con la studiosità o il lassismo dei bamboccioni e dei suoi adulti fan.
La prolungata scarsità di posti disponibili significa che la disoccupazione sta diventando strutturale. E la previsione negativa per il terzo trimestre dell’economia italiana, quello che va da luglio a settembre, non sprona gli animi italioti a ostentare troppa fiducia nel futuro prossimo. L’intero 2014 si avvia a concludersi con il segno meno: lo stesso aggiornamento del Def, il Documento di economia e finanza sul tavolo del Consiglio dei Ministri, dovrebbe recepire una previsione di recessione per lo 0,2 o 0,3% del Pil. Nonostante ciò l’Italia sembra oramai abituata a navigare un po’ così, distribuendo numeri che nessuno (a parte gli economisti) capirà, conservando il tradizionale spirito disfattista e tollerando le ottimiste acrobazie segnate dalla sindrome dell’“annuncite” da parte dei suoi governi. Difatti, mentre nessuno sembra avere nelle corde l’idea di assumere, nel nostrano vecchio stivale la politica si azzuffa sulla bagarre dell’articolo 18, quindi sulla liceità delle imprese di licenziare.