di Mario Sechi
Quella del 19 giugno è per il Partito Democratico, pur con tutte le particolarità e specificità locali che certo non possono essere negate o ignorate, una sconfitta di natura e rilievo generale e nazionale ed il simbolo di questa sconfitta è ciò che è avvenuto a Torino.
Nel voto torinese, infatti, si trovano gli aspetti profondi e strutturali che spiegano quel dato nazionale che ci vede soccombere in 19 ballottaggi su 20 e che ha caricato il voto di due settimane fa di un significato politico generale che non può essere eluso.
Il punto, il nodo, e a questo punto anche il problema, è il Partito Democratico: come è visto e percepito in strati sempre più vasti dell’elettorato, e come è, nel senso di come è organizzato, vissuto dai suoi aderenti, controllato nelle realtá locali, strutturato nel prendere le sue decisioni e scegliere i suoi gruppi dirigenti.
In questo senso il voto torinese proietta le ombre più cupe sull’immediato futuro del Pd anche a livello nazionale e rischia di essere un’allarmante preludio di ciò che potrebbe determinarsi già ad ottobre, perché analoghe sono le premesse e analoghi i problemi, tutti in capo al Pd, che il voto di due settimane fa ha evidenziato.
A Torino, come in Italia, non erano e non sono in discussione la qualità ed i risultati dell’azione di governo, quei risultati che giustamente nei loro interventi in Direzione sia Piero Fassino, riferendosi a Torino, sia Matteo Renzi, riferendosi al Paese, hanno rivendicato. Quei risultati sono incontestabili e tuttavia, non sono bastati quindici giorni fa e potrebbero non bastare a ottobre.
A Torino, come in Italia, ciò che il Pd ha pagato e paga è essere percepito e riconosciuto, non sempre a torto, come il garante dell’establishment, molto più attento e preoccupato a dare supporto politico al sistema economico e finanziario che ha orientato le trasformazioni degli ultimi venticinque anni, anziché occuparsi e farsi carico della qualità sociale di quelle trasformazioni e delle quote sempre più ampie di popolazione che quelle trasformazioni, in assenza di una ricomposizione sociale di cui avrebbe dovuto farsi carico il centro sinistra, progressivamente escludevano e marginalizzavano. A quella parte di società e di città, le famose periferie di cui tanto si scrive, a quegli elettori noi non diamo attenzione e risposte da vent’anni, non da due, e loro, da vent’anni, non da due, ci votano sempre meno, continuando a lanciarci messaggi, ogni volta più disillusi e rabbiosi, che ci ostiniamo ad ignorare.
Prima che tutto ciò si trasformi in una frattura definitiva e insanabile fra il nostro partito e quella parte d’Italia che per primi dovremo rappresentare, occorre compiere atti concreti, immediati e politicamente significativi. Atti che dimostrino in modo credibile che da oggi e finalmente il primo pensiero del PD, non l’unico, ma il primo, è migliorare le condizioni di vita, le aspettative e le speranze nel futuro della parte più debole ed esposta agli effetti della crisi e delle trasformazioni delle nostre società. Così come il primo obiettivo del Pd, non l’unico, ma il primo, è dare a quella parte di società rappresentanza politica e occasioni per sentirsi parte della vita democratica delle loro città e del loro Paese. Si illude, e mente a se stesso, chi pensa di poter rispondere a quel malessere con un marciapiede risistemato, un’aiuola rasata o un concerto in piazza Montale; tutte cose utili, s’intende, ma bastasse questo, i 5 Stelle non avrebbero preso nelle sezioni di quei territori fino al 70% dei consensi.
No. Ciò che è riuscito a Chiara Appendino, ed è riuscito proprio nel momento del confronto diretto con il nostro candidato, è offrire a quegli elettori, spossati dalla crisi, atterriti dalla precarietà, tenuti un po’ lontani dalla città che cambiava e risplendeva, arrabbiati con una politica preoccupata solo di controllare posti e potere, un’occasione per identificarsi e dare un senso alla propria rabbia. I 5 stelle a Torino, per quanto improbabili siano i loro programmi, imbarazzanti i loro esponenti ed inquietanti i loro obiettivi politici, sono riusciti a offrire a quegli elettori un’occasione di riconoscimento e rappresentanza politica.
Davanti a questa semplice evidenza e sapendo cosa attende e su cosa è sfidato il Pd e la sua leadership da qui ai prossimi mesi, in Italia e in Europa, dovrebbe essere naturale assumere il tema del cambiamento profondo e urgente del partito. Perché, che si tratti di reagire a sconfitte brucianti e umilianti in città come Torino, Roma o Napoli, che si tratti di affrontare e vincere, il referendum costituzionale di ottobre o di proseguire il cammino delle riforme, il Pd così com’è non ce la può fare. Il Pd nelle mani di consorterie e notabilati locali, il Pd del controllo sistematico di tessere e preferenze, dei circoli chiusi a ogni contatto con energie ed esperienze esterne, questo Pd non è attrezzato, né adeguato ad essere soggetto di cambiamento.
Nei suoi interventi in Direzione, Renzi ha risposto in modo efficace, dal punto di vista dialettico, ma insufficiente nel merito alle richieste di mettere mano al partito. Perché è vero che si è messo fine alla stagione dei caminetti e dei patti di sindacato fra maggiorenti nazionali, e fa bene Renzi a rifiutare ogni ritorno a quel modello, ma quest’innovazione, pur fondamentale, si è fermata al solo livello nazionale e non ha neppure lontanamente sfiorato il partito al di fuori delle stanze del nazareno o di palazzo chigi. Se il Segretario e l’attuale gruppo dirigente gettassero uno sguardo oltre il primo orizzonte visibile dalle loro finestre, (quelle che giustamente Renzi rivendica di aver aperto, chiudendo i caminetti) vedrebbero un partito che non fa più politica, non mette in circolo idee, non produce iniziative, neppure quelle necessarie a trasmettere nei territori il senso e il valore delle azioni e delle riforme prodotte dal nostro governo. Vedrebbero segretari di circolo, provinciali, regionali, ridotti alla certificazione notarile degli scontri e degli accordi di spartizione di pezzi e posti di potere fra correnti e consorterie. Vedrebbero soprattutto migliaia di iscritti, elettori, militanti, uno straordinario patrimonio democratico, ostaggi di un modello di partito e di politica che impedisce loro di partecipare se non per mettersi a servizio del notabile di turno. Vedrebbero come l’unica risposta che questi militanti ricevono, quando denunciano questo stato di cose, sono due braccia che si allargano.
Matteo Renzi qualche settimana fa ha evocato, riferendosi al partito in molti territori, il lanciafiamme. Quell’espressione non è piaciuta, ha suscitato scandalo e sdegnate prese di distanza, e lo si può capire. È curioso però che chi si scandalizza per il lanciafiamme, sopporti senza particolari problemi quell’odore di nafta e olio esausto che arriva da molte nostre realtà.
Comunque, felice o infelice che fosse l’averlo evocato, del lanciafiamme non c’era più traccia nella relazione e nella replica in Direzione e non solo del lanciafiamme, ma neppure di una torcia o di una lampadina per fare un po’ di luce su quel che accade al Pd in giro per l’Italia. È un problema e bisogna dirlo a Matteo Renzi con coraggiosa lealtà e, se necessario, con ostinazione. Il cambiamento del Pd non è più rimovibile e non è più rinviabile.
È un tema vero, non è una trappola ai danni del segretario e presidente del consiglio e l’obiettivo, se ho capito bene la risposta data da Renzi a chi pone questo tema, non è tornare ai caminetti. È esattamente il contrario: è chiudere i caminetti e aprire le finestre non solo al Nazareno, ma anche a Torino, a Roma, a Napoli, a Genova e, lo volesse il cielo, a Nichelino.