Nonostante il Coronavirus, è urgente immaginare e costruire un futuro reale e accessibile per il Paese che salvi imprese, attività produttive e socialità.
Coniugare insomma i diversi aspetti della vita quotidiana dell’essere umano, affrontando difficoltà e diffidenze: a questo lavora “imprese aperte”, progetto adottato dalla Regione Piemonte, al quale contribuisce una task force di esperti tecnico-scientifici delle università piemontesi e di altre università e centri di ricerca, coordinati dal Politecnico di Torino. Vengono elaborate linee guida da consegnare alla politica per far ripartire il Paese in sicurezza.
La prima stesura di un rapporto, che verrà costantemente aggiornato in base alle esperienze dei casi studio, è disponibile sul sito del Politecnico www.impreseaperte.polito.it. Lo scopo è costruire insieme la possibile ripartenza in sicurezza del territorio ferito dalla pandemia.
I visitatori del sito potranno attingere alla completezza del rapporto, che nelle prossime settimane sarà arricchito continuamente dai commenti, dai suggerimenti ma soprattutto grazie all’analisi di decine di aziende che si sono iscritte all’iniziativa “Vuoi diventare un beta tester?”
Rettore Guido Saracco, di che si tratta, cos’è un beta tester?
“Beta tester sono quelle aziende che applicano i protocolli e le buone pratiche che noi abbiamo definito per contenere il rischio di trasmissione del contagio dentro il luogo di lavoro, nel loro contesto specifico. La loro risposta ci aiuterà a capire quanto è resiliente il nostro approccio e soprattutto aiuterà le aziende della stessa categoria dove l’organizzazione del lavoro, degli spazi, delle persone, i modelli formativi potrà essere condiviso”.
Quante aziende hanno aderito al vostro progetto e quante persone ci lavorano?
“In meno di 24 ore abbiamo avuto l’adesione di quaranta aziende, di ogni tipo di settore, dalla cultura, all’automotive, allo spettacolo. Tra di esse ci sono il Teatro Regio, il Museo Egizio ma anche una scuola dell’obbligo. Il tutto è realizzato da un team di ottanta persone, metà valutatori e metà esperti, che le assiste nel progetto e nella formazione. Il primo documento è stato completato e rappresenta un primo feedback di questo lavoro. Queste conoscenze ci permetteranno, a inizio maggio, di avere uno strumento ben evoluto e in grado di poter essere applicato”.
Quali sono le difficoltà a rendere effettivamente il percorso di educazione alla “nuova normalità” davvero realizzabile?
“Da una parte ci sono le istanze dei lavoratori, il loro diritto a essere protetti e il desiderio di tornare alla normalità con fiducia, nonostante con gli effetti di questa pandemia dovremo convivere a lungo. Dall’altra, gli imprenditori spaventati dal rischio di perdere la propria azienda per fallimento. In questo è da aggiungere la paura di doversi prendere delle responsabilità in un contesto che non ha ancora i contorni ben definiti, perché la scienza deve ancora dirci molto su come il virus viene a trasmettersi e perché dura così a lungo la sua presenza anche quando si è guariti”.
È quindi fondamentale la condivisione delle esperienze.
“Serve l’approfondimento di molti esperti, il convergere su pratiche condivise, efficaci e praticabili sia dalle piccole imprese che dai lavoratori: l’uso delle mascherine, l’imposizione e il rispetto di barriere, il distanziamento, la presenza e l’uso del gel igienizzante. Questo viene declinato in ogni caso, da contesto a contesto: a ciò serve una fase di beta testing”.
Testare la realtà nella quale dovremo convivere col virus. Ci fa un esempio? Lei parlava del Teatro Regio.
“Il lavoro che stiamo realizzando è quello di entrare, in questo caso a teatro, e immaginare cosa potrà capitare all’ingresso, nella hall, per consegnare i cappotti, l’ingresso in sala, la disposizione del pubblico, se si è davanti a un nucleo famigliare che quindi convive in uno stesso ambiente nella quotidianità si potrebbe immaginare di farli accomodare in modo diverso da chi è single o in coppia. Non sono trascurabili le problematiche manifestate dalla situazione dell’orchestra. Pensiamo al coro, composto da elementi che sono vicini tra di loro e che non potranno mettere mascherine quindi andrà pensato qualcosa di specifico”.
Si tratta di ridisegnare completamente non solo l’ambiente lavorativo ma anche le architetture sociali e di rapporti. È possibile una road map? Quanto tempo ci vorrà?
“Stiamo lavorando molto e velocemente, non credo che ci vorrà molto. Non sarà come prima, torneremo in modalità 2.0 temporanea e la realtà che ci aspetta credo sarà abbastanza originale. Ce la ricorderemo tutta la vita”.
Il suo darsi da fare è stato letto da qualcuno come un desiderio di mettersi in mostra. Le fa male? Che ne pensa?
“Non serve nemmeno commentare. Essere alla guida del Politecnico di Torino in questo momento storico obbliga a rendersi conto di essere un’istituzione fondamentale per risolvere delle sfide importanti nel Paese, e avendo la possibilità di fare approfondimenti, di mettersi a servizio. Oggi più che mai, il Politecnico non deve fare l’università che sta a coltivare la propria eccellenza. Il mondo delle imprese in passato è stato guardato in modo schizzinoso, io al contrario lo considero fondamentale”.
Sono le “imprese aperte” della ripresa.
“Oggi è necessario portare avanti un discorso condiviso. Il Politecnico gioca da terzo per arrivare a convincere le parti che si è davanti a metodi avvallati da sostanza scientifica e robustezza che non comportava investimenti inaccettabili, nemmeno la rinuncia alla sicurezza di non rischiare il contagio sul luogo di lavoro”.
E chi dice che lei starebbe tirando le fila per la sua candidatura a sindaco nel 2021?
“Lei crede che ottanta persone lavorino incessantemente per giorni, e continueranno a farlo, per la mia visibilità? E’ impossibile, oltre che ridicolo pensarlo. Io mi do da fare, e non voglio andare a dormire senza aver provato a mettere in campo tutto ciò che posso fare per il prossimo e con le cose di cui mi occupo. Se dà fastidio non mi interessa”.