Sviscerare i meccanismi del liberismo economico e le modalità con cui essi sono stati assunti come dogmi indiscutibili, questo tenta di fare l’economista Mariana Mazzucato, nel suo ultimo libro “Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale” (editore Laterza). L’autrice, docente di economia all’Università del Sussex in Gran Bretagna, spiega che si è dato per scontato il perfetto funzionamento del mercato e si è affidato alle sue presunti leggi l’andamento complessivo dell’economia. Questo avrebbe dovuto garantire la miglior allocazione possibile delle risorse. In realtà così non è, poiché il mercato perfetto non esiste e in assenza di regole si è soltanto aperto la strada a crescenti disuguaglianze sociali. Qualcosa che, alla fine, sta persino soffocando l’economia reale stessa.
Il problema deriva da un vero e proprio mutamento genetico della finanza che, da supporto volto a fornire le risorse per gli investimenti attraverso il risparmio, è divenuto uno strumento a sé stante, sganciato dalla crescita economica, dalla creazione di posti di lavoro e, in definitiva, dal benessere della collettività. La Mazzucato ritiene che le classi dominanti abbiano imposto, attraverso parte della cultura economica e del sistema mediatico, l’idea per cui il libero mercato dovesse prevalere su tutto. Si sono così demonizzate la spesa pubblica e le protezioni sociali, ritenute inutili ed improduttive, quasi per definizione. Un’operazione che i potentati economici hanno potuto condurre grazie ad una politica succube che ha permesso di allargare a dismisura gli spazi di profitto, anche in aree come la sanità o la previdenza, che per loro natura hanno vocazione ad essere pubbliche.
Soprattutto, e questo è il punto decisivo, si è fatta confusione sulla creazione di valore, ritenendo che lo fosse anche la semplice estrazione di valore prodotto da altri come, per molti versi, è l’attività finanziaria. Ecco allora la frenetica ricerca di un profitto speculativo di breve termine a scapito di una sostenibilità di più lungo periodo. Ovviamente anche la suddivisione del reddito ne ha risentito, fornendo giustificazione ai compensi stratosferici di alcuni top manager, mentre si impoveriva la classe media, quella che da sempre viveva del proprio lavoro, subordinato o autonomo che fosse. Questo ceto medio, tradizionale colonna vertebrale delle democrazia ne è uscito con le ossa rotte e proprio da questo tracollo sociale derivano le paure e le proteste per una globalizzazione non governata. Per uscire da questo stato di cose, occorre riconsiderare la nozione di valore, ci dice la autrice, restituendone anche ai beni pubblici e a tutto quanto accresce la dotazione per la collettività. Una totale inversione di rotta, dunque, rispetto agli ultimi tre decenni.