di Giorgio Merlo
Ogni volta che si parla della Costituzione italiana, della riforma costituzionale, della riforma istituzionale o anche solo della legge elettorale, si parla anche e soprattuto dei cattolici democratici. O meglio, della cultura cattolica democratica. E questo per una semplice e nota motivazione. Tutti sanno che proprio i cattolici democratici, ma non solo come ovvio, sono stati determinanti e decisivi nel dar vita alla nostra Costituzione. Come sono stati decisivi in molte fasi storiche successive e ogniqualvolta il tema della Costituzione, dei suoi valori, della sua impalcatura e della sua “struttura” erano messe in discussione. O anche solo, e molto piu’ semplicemente, si parlava della sua riforma.
Ora, è pur vero che è sempre difficile tracciare dei confronti tra le diverse fasi storiche. Cambiano i protagonisti politici, cambiano i partiti e cambiano anche i presunti avversari politici. E questo e’ un motivo importante da richiamare se vogliamo evitare di fare generalizzazioni fuori luogo e di tutta l’erba un fascio. E’ sufficiente leggere, oggi, le dichiarazioni di molti cattolici democratici pronunciate alla vigilia del referendum costituzionale voluto dal centro destra a guida Berlusconi nel 2005 per rendersi conto che le cose cambiano anche, e purtroppo, a seconda delle fasi storiche e delle maggioranze politiche di turno. Ma è indubbio che, al di là delle convenienze e delle contingenze del momento, ci sono alcune “costanti” politiche e culturali che non dovrebbero mai essere abbandonati o relegati alle contingenze della politica. Senza ridurre il tutto alla fretta, alla velocita’ decisionale e alla necessita’ di fare tutto in poco tempo.
Valori e costanti che sono noti alla cultura politica italiana. E cioè, valorizzazione e conservazione del pluralismo politico; centralità della persona e del cittadino nella scelta dei propri rappresentanti; ruolo essenziale dei corpi intermedi; evitare la concentrazione dei poteri attraverso la garanzia dei pesi e dei contrappesi e, soprattutto, salvaguardia del principio democratico riaffermando la centralita’ del Parlamento e degli organismi di controllo.
Insomma, una serie di principi cardine attorno ai quali si è contraddistinta e segnalata la presenza decisiva e qualificante della miglior cultura cattolico democratica nel tempo.
Ecco perché viene quasi spontanea la domanda sulla presenza, oggi, di quella cultura e di quel filone culturale nella discussione che ha caratterizzato il confronto parlamentare sulla tanto discussa riforma costituzionale. Semprechè non vogliamo limitarci alla dissonanza di posizioni e di scelte a seconda di chi governa in quel particolare momento storico e politico. E questo senza mettere in discussione le scelte votate dal Parlamento a maggioranza e lo stesso dibattito che c’è stato alla Camera e al Senato in questi ultimi mesi.
Ma una domanda sorge spontanea e non può non diventare oggetto di discussione quando si parla di cattolici impegnati in politica. E cioè, da tempo molti di noi sostengono la tesi che questa presenza politica non si può ridurre a “trattare” alcuni temi – i cosiddetti temi “etici” – lasciando il campo libero per tutto il resto. Perché, per citare Mino Martinazzoli, non si può essere “baciapile a contratto” o, come li definiva in modo sprezzante nella prima repubblica Carlo Donat-Cattin e in tutt’altra epoca storica, solo “cattolici professionisti”. I cattolici democratici hanno un ruolo e una funzione politica e culturale se declinano la loro specificita’ in modo organico e coerente e non attraverso una pratica una tantum. Certo, è pur vero che nel deserto contemporaneo della politica e in assenza di qualsiasi identità definita, lo stesso cattolicesimo democratico – tanto per fermarsi a questo filone culturale – rischia di essere assorbito, e quindi svuotato, dalle regole della politica attuale. E cioè, partiti personali, personalizzazione accentuata, fedeltà al capo e velocità decisionale. Ma, al di là delle mode, credo che almeno su un punto ci debba essere chiarezza. O l’area cattolico democratica – per fermarsi a questa – intende mantenersi fedele alla sua origine e alla sua cultura oppure dichiari definitivamente di abdicare alla sua specificità che l’ha resa protagonista a livello nazionale nelle scelte politiche decisive per lo stesso sviluppo del nostro paese. E, soprattutto, a garanzia della qualità della nostra democrazia.