Venne crocifisso quando il sole, tramontando, trasfigurava i sassi di Matera. Cinquant’anni fa, in un luogo che sembrava la Luna. Il suo volto, umanissimo e ben lontano da quello “robotico” mostrato da Mel Gibson tanto tempo dopo, fece il giro del mondo. E quando Gesù si fermò a Venezia, gli venne tolta dal capo la corona di spine. Al suo posto, nelle mani, si trovò un leone d’argento. Uno per lui e un altro per il suo maestro Pier Paolo Pasolini. La critica laica inneggiò al capolavoro. Dalle stanze del Vaticano partì un anatema. Domani quello che allora era un giovane di diciotto anni tornerà sugli antichi passi e a Lucca, per il prezioso Festival dei Cinema Anno Dieci, rivivrà una storia molto particolare che per certi versi ebbe a cambiargli la vita. Certamente sì. Perché, dopo aver interpretato la figura del Cristo ne “Il Vangelo secondo Matteo”, Enrique Irazoqui tornato in Spagna dove da studente e sindacalista universitario combatteva contro il regime franchista ebbe a subire il suo personale calvario. E questa volta il cinema non c’entrava.
«Per la verità, in galera ero già finito l’anno precedente a quello della mia partecipazione nel film di Pasolini. Ero ufficialmente iscritto al Partito Comunista e venni arrestato a Barcellona nel corso di una manifestazione di protesta per l’esecuzione del compagno militante Julian Grimau. Mio padre, borghese che mi costringeva ad andare con lui per vedere la boxe volendo fare di me un uomo vero, mediò con le autorità e uscii presto. Due stagioni dopo, uscito il film del “Vangelo”, il regime non mi perdonò il fatto di aver girato con un regista rivoluzionario. Trascorsi il periodo di leva in una cella di isolamento e mi venne strappato il passaporto. Soltanto per caso e per fortuna, una volta, uscito di galera riuscii a scappare dalla Spagna per raggiungere Parigi».
Il caso e la fortuna. I responsabili, sintetizzabili nel Quinto Elemento, che possono segnare l’esistenza di ciascuno determinando accadimenti che vanno ben oltre ogni tipo di aspettativa. Per Joaquin, che a fare l’attore manco aveva pensato un solo attimo, le “guide” inconsapevoli furono due coetanei fiorentini arrivati a Barcellona con il visto di turisti ma in realtà attivisti del Partito Socialista Italiano di Nenni.
«Un giorno prima di Natale, era il 1963, venne convocato nella sede clandestina del sindacato universitario del quale ero segretario. Mi dissero che, da qualche tempo, due italiani andavano in giro facendo strane domande sul movimento antifranchista. C’era il sospetto che fossero due spie infiltrate. Indagai, li frequentai e ogni dubbio venne fugato. Si trattava di due compagni. Ebbi un’illuminazione. Chiesi loro di accompagnarmi in Italia dove, ne ero certo, avrei potuto trovare nuovi sostegni economici per la causa antifranchista insieme con la disponibilità di intellettuali disposti a venire in Spagna per alcuni cicli di conferenze. Mia mamma era veneta e io sapevo bene l’italiano. Arrivai a Firenze, con i due compagni, e la prima persona con la quale entrai in contatto fu l’allora sindaco Giorgio La Pira. Fu con lui che scesi a Roma».
Si infoltì il gruppo, nella capitale. Compatto, una sera. Tutti quanti decisero di raggiungere in autobus il numero 9 di via Eufrate, all’Eur. C’erano La Pira, Elsa Morante con il suo ex marito Alberto Moravia, Vasco Pratolini, Giorgio Manacorda e naturalmente il giovane Enrique. Suonarono il campanello dell’abitazione dove viveva Pier Paolo Pasolini che li aspettava per la cena.
«Per la verità venne ad aprirci un ragazzo che aveva una selva di capelli neri in testa. “Ninè” falli entrare disse una voce proveniente dalla cucina. Era il regista che si rivolgeva a Davoli. Il suo ragazzo. Ninetto aveva quindici anni. Scandaloso? Affatto. In seguito scoprii che quello di Pasolini con lui era un rapporto assolutamente autentico e puro che nulla aveva a che fare con il plagio o la prostituzione. Cenammo. Pier Paolo non mi staccava gli occhi di dosso. Ad un tratto disse forte: “È lui il mio Gesù”. Io mi misi a ridere. Per nulla al mondo avrei fatto l’attore. Alle cinque del mattino eravamo ancora lì a discutere. La più infervorata per convincermi ad accettare era Elsa Morante, che poi sarebbe diventata mia grande amica. Crollai che stava albeggiando sotto il peso della promessa fattami dal produttore Alfredo Bini. Tutti i soldi che avrei dovuto incassare il per fare il Gesù sarebbero andati al mio sindacato. Mi sentii un poco come un Giuda all’incontrario nella storia dei trenta denari. Ma ne valeva la pena, a quelle condizioni».
Attori si nasce, ma si può anche diventare. Enrique Irazoqui lo diventò, anche se ben lontano dall’applicare le regole di Stanislawsky secondo le quali l’empatia tra interprete e personaggio interpretato deve essere totale. Sicuramente complicato per chiunque rivestire i panni, anche quelli trascendentali, di Gesù. Ancora di più per il giovane catalano, irriducibile ateo.
«Il fatto di aver dovuto fatto rivivere il Cristo non mi ha cambiato la vita. Mi sono sempre attenuto a ciò che, fin dall’inizio, mi avevano promesso sia Pasolini e sia Elsa Morante: il loro sarebbe stato un Gesù gramsciano. Certo provai un grande imbarazzo quando, dopo aver girato una scena nelle campagne di Barletta, un gruppo di donne tutte vestite in nero si inginocchiarono introno a me pregandomi di fare un miracolo. La mia vita, invece, venne segnata da Pier Paolo e da Elsa. Lei, per me, un autentico dono del cielo, un’amica straordinaria, un pigmalione al femminile. Lui un ciclone in grado di far vacillare ogni certezza. “Senorito”, mi chiamava alludendo alle mie origini borghesi e al mio status da intellettuale radical chic. Cosa che mi faceva incazzare, perché io non ero così. Poi, il giorno in cui si schierò con i poliziotti “figli del popolo” che venivano picchiati dagli studenti figli dei ricchi. Lo invitai in Spagna per vedere cosa faceva la milizia franchista. Eppure, tra mille contraddizioni, l’ho amato. Ho amato tantissimo e soprattutto il Pasolini poeta oltreché l’autore di film come “Uccellacci e uccellini”. Il resto non ,mi ha mai interessato e le “Giornate di Salò” non l’ho manco visto».
Già, la vita non è cinema. Specialmente non lo è per Irazoqui, ex combattente per un mondo migliore: «Mi sa tanto che abbiamo perso definitivamente e su tutti i fronti. L’unica mia soddisfazione è quella di poter dire che non ho mai ceduto alle lusinghe del nemico». E si lascia andare nel suo mondo virtuale. Quello degli scacchi, nel cui gioco è campione, che muove nel suo appartamentino affacciato sul mare di Cadaques da dove, talvolta, si possono vedere le ombre di Picasso, Dalì e Lorca che decisero di chiudere lì il loro viaggio terreno.