Scritto da Mauro Laus
Si è chiusa ieri in Commissione lavoro la discussione sulla manovra di bilancio e al di là di ogni previsione e appartenenza politica, mosso dalla preoccupazione rispetto agli indigeribili tagli di risorse ai Comuni, mi sono ritrovato nei panni di portavoce della sindaca Appendino.
Non ho potuto non farmi carico di quell’inquietudine che è ormai sentimento comune a tante città del nord, pensiamo all’asse Milano, Bologna e Genova, città che da settimane manifestano il disappunto verso una manovra di bilancio che non riserva alcuna attenzione agli enti locali.
A partire dall’abolizione del fondo consolidato di 300 milioni di euro, nato per rimborsare i Comuni delle mancate entrate conseguenti alle agevolazioni per IMU e TASI, ma anche l’incremento di 10 punti della percentuale di accantonamento al fondo crediti. Una manovra che di fatto mina la stabilità dei bilanci comunali che, ancora più in difficoltà di quanto già non siano, saranno costretti a comprimere i servizi soprattutto per le fasce di cittadini più svantaggiati e bloccare la macchina amministrativa anche sul versante della capacità di investimento.
E allora come la vogliamo chiamare questa manovra? La manovra del balcone di Palazzo Chigi? Il balcone dal quale il ministro della disoccupazione, schiamazzando e gesticolando forsennatamente, annunciava di aver ufficialmente abolito la povertà e che il rapporto deficit-pil sarebbe stato del 2,4% per ciascuno dei prossimi anni, grazie alla goliardica superficialità degli annunci in grado di minare i mercati.
Quel che ho chiesto nel mio intervento in Commissione, è se sia vero o meno che abbiamo già buttato via 1,5 miliardi di interessi e che ancora di più ne butteremo nei prossimi anni (5 miliardi nel 2019, 9 nel 2020); ho chiesto se sia vero o meno, così come raccontano i documenti contabili, che le imprese pagheranno 6 miliardi di tasse in più rispetto al 2018.
Certamente la manovra contiene punti positivi, ma anche questi vanno letti con onestà intellettuale. Ad esempio le risorse riservate alla scuola, a cui sono stati destinati 25 milioni di euro. Milioni che rispetto ai 37 miliardi a disposizione della manovra, rappresentano però lo 0,06 per cento. E allora mi chiedo, tanto vale la scuola italiana per il governo del cambiamento?
Avevano promesso un piano straordinario di edilizia scolastica, sanitaria e del patrimonio pubblico, eppure non esiste alcun monitoraggio o fotografia aggiornata di quanto occorra per mettere in sicurezza l’intero patrimonio immobiliare, non esiste alcun piano pluriennale che indichi trasparenza delle risorse e priorità su cui investire. Un governo serio dovrebbe ragionare secondo questa logica.
Il ministro dell’interno Salvini aveva promesso la riduzione delle accise sulla benzina al primo consiglio dei ministri, e cosa ha fatto? ha dato facoltà alla Regione Liguria di aumentare la tassa sulla benzina. La tassa sulla “disgrazia”. Riforma dei centri per l’impiego: aldilà dell’applicabilità della quota 100, come pensano sia credibile il fatto che in pochi mesi, si possano sbloccare occupazioni per 4 mila unità, bandire concorsi entro marzo, assumere, rinnovare e attivare la rete infrastrutturale dei centri per l’impiego? Onestà e franchezza impongono di dirci che in realtà regnerà il caos e che il lavoro non si crea dal nulla rovistando nei centri per l’impiego come cani nella spazzatura.
Dobbiamo dircelo, si tratta di una manovra da piccole mance da prima Repubblica, basata su un deficit finalizzato alla spesa corrente, anziché investimenti strutturali di cui il Paese ha bisogno, una manovra senza visione. Una manovra che non tiene conto e ignora la vocazione manifatturiera del nostro Paese e che continua a nutrirsi di un paradosso. I pezzi forti della manovra, i due manifesti della propaganda del cambiamento sono di fatto assenti: quota 100 e reddito di cittadinanza. Due fondi che si guardano in cagnesco, espressione di due forze politiche, ostaggio del meccanismo tira e molla Lega- Stelle del tolgo a te per ottenere di più