Il celibato ecclesiastico sembra un problema semplice, serio, di recente datazione. In realtà è assai complesso tanto da coinvolgere, se lo si volesse approfondire, la natura stessa del sacerdozio; è, sotto certi aspetti,comico e, infine, longevo quanto gli anni trascorsi da quando s’incominciò ad imporlo. Conviene, dunque, per affrontarlo seriamente, inquadrarlo nella sua lunga storia.
Nei primi tempi della chiesa, nei dibattiti e negli scontri, anche violenti, tra movimenti e fazioni che si richiamavano a Gesù, non figurava affatto il tema del celibato dei sacerdoti. Nessuna meraviglia dal momento che neppure si parlava di sacerdozio nei termini e nelle forme in cui lentamente è andato configurandosi e imponendosi, giungendo a rendere chi ne era investito una figura a sé stante nelle comunità cristiane, loro guida indiscussa e detentore d’ogni potere. “Presbiteri” era il termine, d’origine greca, con cui si indicavano gli “anziani” che, sul modello delle sinagoghe ebraiche, le presiedevano. La stessa funzione esercitata dagli “episcopi”, cioè “sorveglianti”, nelle comunità fondate da Paolo, diffuse soprattutto nelle regioni di cultura greco-romana dove egli esercitava il suo apostolato .
Un’altra precisazione si deve fare per quanto concerne il momento centrale della vita comunitaria delle origini: il “rendimento di grazie”o “eucarestia”, non ancora schematizzata in rito, ben diverso dalla mensa comune che aveva luogo nelle prime comunità, culminante nell’azione di grazie al Padre celeste per il dono di Gesù, morto e risorto per ricondurre a lui l’uomo peccatore.
Queste premesse aiutano a capire come il celibato dei sacerdoti fosse del tutto assente nei serrati dibattiti cui s’è fatto cenno, giacché sacerdozio ed eucarestia non avevano i caratteri in seguito acquisiti e fino ad oggi giunti. Gli anziani e i sovrintendenti delle comunità di fede che andavano sviluppandosi, erano persone per lo più sposate, a cominciare dagli apostoli, ceppo vivo da cui s’avviò la catena di coloro che la chiesa ritiene loro successori, eredi e detentori d’un sacerdozio che si crede istituito da Gesù. Il celibato, che sarà in seguito ad esso obbligatoriamente collegato, era estraneo alla cultura d’allora, in particolare a quella ebraica, nella quale ai ministri del culto solo si richiedeva la continenza sessuale la notte precedente il loro servizio. Si sa con certezza che Pietro era sposato, come presumibilmente la maggioranza dei dodici. Indirettamente ciò è confermato da Paolo nella prima lettera ai Corinzi, nella quale difende un diritto del quale egli non faceva uso. “Non abbiamo anche noi [Paolo e il suo compagno Barnaba] il diritto di farci accompagnare da una donna credente come gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Pietro?” Nella prima lettera a Timoteo, poi, esplicitamente afferma la normalità del matrimonio di chi era alla guida di una comunità: “Occorre che l’episcopo sia irreprensibile, marito di una sola moglie… sappia amministrare la propria famiglia, mantenere obbedienti i figli, poiché se uno non sa governare la propria casa come potrà aver cura della comunità di Dio?”. Richiamo rivolto anche ai diaconi che a loro volta dovevano essere “mariti di una sola moglie e sapere governare bene i loro figli e la loro casa”.
Nei primi tre secoli, dunque, lo stato personale di chi aveva funzioni di responsabilità non costituì mai un problema. Altre e più gravi le questioni cui i credenti dovevano far fronte. Al loro esterno i rapporti con gli ebrei, con i “gentili” che bussavano alla loro porta, con le culture nelle quali mettevano radici, in particolare con Roma dove le periodiche persecuzioni tenevano in continuo allarme. All’interno, invece, urgevano problemi determinati dallo strutturarsi e relazionarsi in un processo unitario delle “chiese” disperse nell’immenso impero romano, dalla formulazione di una teologia “ortodossa”, dalla maturazione del senso del “sacro” e delle ritualità del battesimo, dell’eucarestia e del sacerdozio. Una complessa operosità di istituzionalizzazione del cristianesimo nella quale finì d’essere coinvolta anche la condizione personale di “presbiteri” e “vescovi”, ormai corpo separato ed autoritario nelle singole comunità. Alla sacralità ed al prestigio da loro acquisiti poteva confarsi il matrimonio?
Una prima risposta venne dalla Spagna. Il sinodo locale di Elvira, nel 306, con chiaro riferimento alla pratica ebraica, dispose la rimozione dall’ufficio di presbitero chi la notte precedente la celebrazione eucaristica avesse avuto rapporti sessuali con la moglie. Il concilio generale di Nicea, del 325, andò oltre, decretando l’illiceità del matrimonio d’un presbitero dopo la sua ordinazione.
Constatata l’inefficacia delle disposizioni conciliari, toccò a due papi risoluti e poco avvezzi a sottigliezze morali quando era in gioco il “bene di santa romana chiesa”. Iniziò il lavoro Gregorio VII, che dopo aver sanzionato i preti sposati con l’interdizione dal loro ufficio e sciolto, nel 1074, i fedeli dall’obbedienza ai vescovi che consentivano il matrimonio dei chierici, giunse ancora ad imporre loro di togliere ai sacerdoti renitenti i bene di sostentamento. Lavoro portato a termine, nel 1095, da Urbano II che diede ordine di vendere come schiave le mogli dei preti abbandonando i figli al loro destino. Il bene dell’istituzione già allora sanava anche la crudeltà. Ciò non bastò a far trionfare il celibato. Nel 1123 il primo Concilio Lateranense nel 1123 ritornò sull’argomento dichiarando invalido il matrimonio degli ecclesiastici. Il Concilio di Trento, iniziato nel 1545, fu l’ultimo ad impegnarsi e sul tema, cercando anche di convincere che celibato e castità sono migliori del matrimonio. con poco successo finora, anche se il celibato è diventato legge col Codice di Diritto Canonico del 1917. (2, continua)
Vittorino Merinas