di Moreno D’Angelo
Nei supermercati abbondano i prodotti ittici provenienti dal lontano oriente. Economici, pratici, belli e puliti. Montagne di gamberetti, seppioline, calamaretti, spesso opportunamente “sbiancati”. Tutti uguali. Oltre a questi prodotti arrivano tonnellate di pesce spazzatura triturato, pronto per produrre mangimi e alimenti per animali.
Un flusso importato negli Stati Uniti e in Europa finalizzato alle produzioni di una “farina” con cui si alimentano gli allevamenti dei pesci.
Dietro a questi traffici si nascondono dei veri e propri inferni. In Thailandia (terza nell’export ittico mondiale), in Indonesia e Malesia si susseguono scempi umani e ambientali senza scrupoli, avallati dal silenzio garantito da una diffusa corruzione e intanto cresce l’export di “trash fish” dall’Asia, a scapito del pesce tradizionale.
È un inferno quello che vivono tanti lavoratori asiatici impegnati nella pesca, spesso giovanissimi perchè con le mani piccole si lavorano meglio i gamberi, con orari impossibili, nessun diritto e pagati da fame. Vicino ai maleodoranti centri di lavorazione sorgono veri e propri villaggi di catapecchie dove in condizioni sub umane riposano i lavoratori del pesce destinato quasi tutto all’export. Il dramma riguarda anche i lavoratori delle imbarcazioni impegnati a rapinare con le reti a strascico ogni forma di pesce (anche di piccole dimensioni) da destinare alla lucrosa produzione di “farina”. In questiìe barche si registra spesso ogni sorta di sopruso e non a caso questi lavoratori sono considerati “Sea Slaves” schiavi del mare. Fenomeno denunciato nei rapporti di alcune associazioni.
È stretto il legame tra sovra-pesca, pesca illegale e tratta degli esseri umani. Oggi la riduzione degli stock di pesce costringe i pescherecci a tornate di pesca incontrollate, sempre più lontano dalle coste e per periodi interminabili. Gli schiavi pescatori vengono passati da un barca all’altra per evitare ispezioni e fughe. E chi si ribella fa spesso una brutta fine.
Una drammatica conseguenza legata alla lucrosa produzione di pesce spazzatura è la cancellazione di ogni forma di vita in zone marine trasformate in deserti biologici. Una foga che non risparmia neanche le aree protette caratterizzate dalla barriera corallina. Dietro a tutti questi comportamenti allucinanti in nome del profitto non poteva non mancare una diffusa corruzione che mette il silenzio e chiude gli occhi con chi dovrebbe intervenire.
Su questo tema ha dato un contributo importante il servizio realizzato in Thailandia, con non poche difficoltà, da “Servizio Pubblico” e messo in onda su Rai 3 domenica 15 marzo 2015.
Molti cominciano a chiedersi quanto siano sicuri i nostri cibi. In ogni caso nulla giustifica la distruzione del mare e la messa in schiavitù di marinai stranieri.
Intanto le noti dolenti in materia di mare e pesca continuano a caratterizzare il Mediterraneo. Pesca selvaggia, inquinamento e aumento delle temperature hanno determinato a un continuo calo del pescato nel Mediterraneo con il concreto rischio di estinzione per diverse specie. Un settore quello ittico totalmente in crisi con calo rilevante di occupati e redditività nel nostro paese. Sono tanti i pescatori costretti a smettere nonostante tradizioni secolari. Basta pensare alle tonnare che non si possono più svolgere, come a Favignana in provincia di Trapani, per mancanza di tonni. I pesci sono depredati in alto mare con il supporto di tecnologie che individuano i branchi e non gli danno alcun scampo. L’allarme nel mediterraneo è stato più volte lanciato dalle organizzazioni ambientaliste e in convegni internazionali ma non sembra che le cose abbiano avuto una svolta. Oltre ai tonni, da sempre nel mirino dei voraci operatori giapponesi, si assiste anche al depauperamento di pesci tradizionali come merluzzi, branzini e pesce spada. A questi fenomeni più noti si aggiunge il preoccupante continuo calo delle sardine. A questo pesante quadro si aggiunge, oltre al riscaldamento delle acque, l’inquinamento per scarichi urbani e industriali, l’invasione di plastica e di ogni sorta di veleni nel mare. Sostanze di cui i pesci si alimentano dando spazio a un vortice perverso che finisce sulle nostre tavole.
Ora il fenomeno tocca anche l’Africa dove le pescose coste atlantiche sono da tempo assalite da vere e proprie flotte legate alla pesca industriale che con reti di decine di chilometri che depredano senza pietà. Se non ci sarà un rigido taglio della pesca, richiesto più volte negli appelli degli ambientalisti, molte specie rischieranno l’estinzione nel Mediterraneo e il patrimonio e l’equilibrio della catena alimentare marina verrà compromesso arrivando a un punto di non ritorno ormai molto vicino. L’uomo deve responsabilizzare i propri sforzi e le proprie scelte anche a tavola per difendere il mare. Si impongono passi concreti oltre ai tanti impegni e belle parole dei convegni per limitare la pesca industriale in nome della pesca responsabile.