Un’altra azienda italiana chiude e questa volta tocca all’Agrati di Collegno. Per dar voce ai propri diritti, gli operai, decidono di presidiare davanti alla Prefettura di piazza Castello a Torino, e insieme alla Fiom, in attesa di essere ricevuti e ascoltati dal prefetto e dal ministero dello Sviluppo economico.
Le motivazioni della chiusura sembrano essere sempre le stesse, una storia che si ripete e che sembra seguire un copione: i costi di produzione sono troppo alti, o meglio, i pezzi finiti di viti e bulloni provenienti dal sud-est asiatico, costano all’Agrati quanto la materia prima in Italia. Così il 30 gennaio 2014, con una breve telefonata, peggio di un fulmine a ciel sereno, gli ottantadue operai durante quella che era iniziata come una normale giornata lavorativa, scoprono di dover essere licenziati, con solo 75 giorni di preavviso e senza cassa integrazione.
Increduli e sconcertati i lavoratori dell’Agrati inizialmente non sanno che fare. Andrea De Vitis, addetto dell’ufficio qualità racconta: «Questa chiusura è un mistero. La nostra è una azienda funzionante, i nostri supervisori non smettevano di dirci di “spingere” perché il lavoro era talmente tanto che se non riuscivamo a portarlo a termine, rischiavamo di rallentare la catena di produzione collegata con gli stabilimenti all’estero. Inoltre da anni vinciamo il premio di produzione. L’ultimo due mesi fa. La telefonata del licenziamento ci è arrivata mentre eravamo proprio sul posto di lavoro». Massimo invece, operaio addetto alla macchina di quarto livello, racconta di come i loro colleghi di Milano, dipendenti della stessa azienda siano oberati di commesse, al punto da dover fare gli straordinari per rispettare le scadenze. Poi racconta: «In parte dobbiamo ringraziare anche Claudia Porchietto, assessore al Lavoro di Torino che ci ha dato una mano richiamando i datori di lavoro, istituzioni e sindacati ad un incontro, alla fine del quale ci è stata proposta la possibilità di ricollocamento per 30 persone e un rimborso oltre al TFR, di 18 mila euro. Il problema però – continua Massimo – è che le condizioni sono inaccettabili. Le 30 persone saranno scelte dall’azienda, e i posti di ricollocamento sono tutti lontani, alcune addirittura in Francia e il rimborso, escluse le tasse sarà in realtà di 13.000 euro. Non si rendono conto che qui ci sono 82 famiglie in difficoltà».
Dal 17 aprile, gli operai non potranno più entrare in azienda, ma comunicano di voler presidiare davanti ai cancelli a partire da domani, a meno di quindici giorni dalla scadenza dell’annuncio della procedura di cessata attività. Il simbolo della loro protesta sono i braccialetti blu, come il colore delle tute che indossano a lavoro e la loro richiesta è ovvia: non chiudere l’azienda, con la speranza di non essere considerati solo dei numeri, ma persone con famiglie e diritti.
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