di Stefano Tallia, segretario Stampa Subalpina
Ho iniziato la mia settimana virtuale postando su Facebook questa frase tratta da un lungo e interessante articolo dedicato da Alessandro Baricco al tema della sconfitta. Confesso, l’ho fatto non a caso, essendo stato proprio lo scrittore torinese uno dei primi cantori del renzismo.
Puzza di sconfitta e minoritarismo, sono queste le obiezioni più diffuse al progetto di costruzione di un nuovo partito che si ponga alla sinistra del Pd. E’ un ritornello che da tempo intonano non solo i pasdaran del Premier, ma anche quelle persone che più dovrebbero essere interessati alla rottura con un partito che -per bocca di Eugenio Scalfari– ha ormai imboccato una deriva plebiscitaria e populista.
C’è naturalmente in una parte del gruppo dirigente del Pd la paura di non riuscire a conservare le proprie posizioni e così si spiega anche il consenso che ottiene Renzi nella direzione del partito, dove i mugugni della vigilia quasi mai si traducono in esplicite manifestazioni di dissenso.
Ma ciò che più sorprendente è che la stessa sindrome di Stendhal abbia contagiato anche chi si trova fuori dalle stanze del Pd, o perché non vi è mai voluto entrare, o perché ne è stato cacciato nella furia della rottamazione.
Penso sia utile fare un po’ d’ordine senza perdere la calma. Una forza di sinistra che ponesse al centro della sua iniziativa la difesa del lavoro nelle sue articolate forme e agli irrinunciabili valori di eguaglianza che sono da sempre il tratto distintivo dei progressisti, potrebbe candidarsi oggi a raccogliere un consenso intorno al 10 per cento.
Se il problema, dunque, fosse banalmente quello di vincere, avrebbero ragione i detrattori di questo progetto e non vi sarebbe alternativa al Partito della Nazione renziano. Il fatto è però che in politica -e non solo in politica- la vittoria immediata non è l’unico elemento che conta.
Detto che offrire una rappresentanza politica al dieci per cento dell’elettorato non è di per sé un obiettivo disprezzabile, va certo riconosciuto che per la sinistra non è questo il momento della vittoria. Sono i mesi –e saranno probabilmente gli anni- nei quali sarà invece necessario tenere unito il proprio popolo, esattamente come fece Enrico Berlinguer negli anni dell’avanzata craxiana. Sopportando anche sconfitte e insulti, ma non rinunciando all’idea di offrire una prospettiva ai valori che si rappresentano.
Ma visto che molti di voi mi conoscono come giornalista sportivo, provo a essere più chiaro utilizzando una metafora calcistica.
16 luglio 1950, stadio Maracanà, finale del Campionato del Mondo tra Brasile e Uruguay. La storia la conosciamo tutti, fissiamo allora un attimo il nostro sguardo su un particolare.
Minuto numero due del secondo tempo: dopo quarantasei minuti di attacchi forsennati, il Brasile riesce a bucare la difesa uruguagia. Centonovantamila spettatori esplodono di gioia, i carioca, ai quali per altro basta un pareggio, sono a un passo dal trionfo.
Il capitano dell’Uruguay è Obdulio Varela. Raccoglie con studiata lentezza la palla da in fondo alla rete e con altrettanta lentezza raggiunge il centro del campo. Dovrebbe avere fretta e invece, no. Lui cammina piano, osserva gli spalti esultanti e con gesto di sfida rallenta ancor di più il passo. Sa che non è il momento della vittoria, non ancora, e lui sta facendo passare il tempo della sconfitta.
Come sia poi finita, tutti lo sappiamo.
Ecco, noi di sinistra avremmo bisogno oggi di un Obdulio Varela. Non ci frega niente di leader che non hanno mai saputo vincere, neppure quando erano in vantaggio per 3-0. Meno ancora ci frega di uno che dopo aver scassinato le porte dello spogliatoio ha preso a giocare con le nostre magliette: è un impostore e prima o poi la truffa emergerà.
Noi abbiamo invece bisogno di “Obdulio Varela Landini”. Perché le vittorie, come ci insegna Alessandro Baricco, si preparano nei giorni della sconfitta.