È ritornato in aula. Sempre magro e sbarbato. Il volto segnato dallo sciopero della fame. Francesco Furchì siede sul banco degli imputati di fianco al suo avvocato Gaetano Pecorella.
Come testimone, l’ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino. Che riferisce come abbia incontrato l’unico accusato per la morte di Alberto Musy, dopo diciannove mesi di come, in seguito ai colpi di pistola esplosi la mattina del 21 marzo 2012.
«Lo conosco, lascia stare, stagli lontano». Questo il consiglio che un collaboratore di Chiamparino gli avrebbe detto durante la campagna elettorale per la corsa a candidato sindaco nel 2001 poiché Furchì chiedeva insistentemente di ottenere un posto in giunta, anche dopo le elezioni: «lo incontrai ancora una o due volte, mi chiedeva di far parte della giunta, voleva entrare in squadra, ma un po’ per equilibri politici, un po’ perché non lo conoscevo, rifiutai. So che tornò altre volte negli uffici a chiedere». Un atteggiamento che per l’ex presidente della Compagnia di San Paolo costituisce un’aggravante: «Per me l’insistenza nel chiedere posti, potrei dire anche oggi, è un’aggravante».
Subito dopo nell’aula è risuonata la voce di Angelica Corporandi D’Auvare, la moglie di Musy. Una testimonianza dolorosa: «La morte di Alberto ha portato grandi cambiamenti in famiglia: prima parlavamo di aggressione, ora di omicidio, un termine che accompagnerà per tutta la vita le mie figlie. Era una parola – ha sottolineato la vedova – che speravamo di non dover scrivere».
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