Scritto da Battista Gardoncini
In via Grattoni 3, subito a destra entrando, c’era la sala stampa della Questura di Torino, con i telefoni, le macchine da scrivere, un televisore, una radio e alcune poltrone, probabilmente refurtiva recuperata che non si era potuto o voluto restituire ai proprietari. Io lavoravo per la cronaca de L’Unità e ci andavo tutte le mattine, con i colleghi de La Stampa, della Gazzetta del Popolo, dell’Ansa, dell’Agi e di qualche testata minore. Repubblica ancora non c’era. Quelli della RAI, dove qualche anno dopo sarei entrato, non si facevano mai vedere ed erano sempre gli ultimi a sapere.
In sala stampa arrivava il mattinale con gli avvenimenti della notte, e da lì si partiva a caccia di notizie negli uffici della questura. Di solito in gruppo, ma a volte qualcuno si allontanava cercando di non dare troppo nell’occhio, nella speranza di dare un “buco” alla concorrenza grazie a qualche informatore privilegiato. Noi piccoli cercavano di fare fronte comune contro la corazzata de La Stampa, e ci scambiavamo informazioni per non farci fregare dai suoi numerosi e agguerriti cronisti. Non sempre ci riuscivamo.
In sala stampa c’era un altoparlante collegato con la radio della centrale operativa. Ascoltavamo tutte le comunicazioni di servizio, ma i messaggi veramente importanti erano criptati e si sentivano soltanto incomprensibili parole smozzicate. Allora aspettavamo che le volanti uscissero dal portone e le seguivamo a tutta velocità per le strade della città. Corse folli, bruciando i rossi senza neppure i vantaggi della sirena. Ma arrivavamo sul posto quasi in contemporanea con gli agenti, che ci conoscevano e tolleravano la nostra presenza. A volte i testimoni ci scambiavano per poliziotti e ci rilasciavano dettagliate descrizioni degli avvenimenti.
Erano gli anni difficili e bui del terrorismo. Quasi ogni giorno esplodevano bombe, si sparava alle gambe, si uccideva. E sparava anche la malavita, dilaniata dalla rivalità tra catanesi e calabresi per il controllo della città. Nel mirino c’eravamo anche noi, che ricevevamo lettere di minaccia e avevamo imparato a guardarci attorno prima di uscire di casa e dalle redazioni. Con gli uomini della squadra mobile e della Digos si svilupparono solidi legami di stima e a volte di amicizia. Noi chiudevamo un occhio quando dietro le porte chiuse degli interrogatori sentivamo volare qualche ceffone di troppo, loro alzavano il telefono nel cuore della notte per segnalarci attentati e omicidi. Noi sbirciavamo i documenti sulle scrivanie incustodite, loro ci passavano sottobanco i documenti delle vittime per fare le “ripro” delle fototessere. Capitava che ci chiedessero di dare risalto a qualche operazione di poco conto per migliorare le “statistiche”, ma non mentivano e non ci prendevano per stupidi. C’era un grande rispetto reciproco. Ricordo ancora una chiacchierata che feci con un dirigente della Digos dopo la cattura di Peci e lo smantellamento della colonna torinese delle Brigate Rosse. Avevo qualche dubbio sulla moralità della legge sui pentiti, che premiava la delazione e consentiva a feroci assassini di cavarsela con poco. Lui disse che era tutto vero, ma che, grazie a quella legge, il giorno prima aveva potuto scendere in strada per cambiare una gomma dell’automobile, e lo aveva fatto senza la paura di finire ammazzato. Aveva ragione lui.
Furono anche anni professionalmente molto gratificanti, e non soltanto perché ero giovane e convinto che con i miei articoli avrei potuto cambiare il mondo. Guardare alle cronache di oggi, tutte basate su comunicati diffusi dalle questure via Whatsapp e da conferenze stampa dove vengono addirittura distribuite le immagini girate dagli operatori della polizia, mi riempie di tristezza. Il giornalismo è profondamente cambiato, e non in meglio. Se sei incatenato al desk non puoi controllare le notizie che ti arrivano. Se sei abbastanza fortunato da uscire dalla redazione, ma devi correre per restare al passo con gli altri, non hai più il tempo per pensare. Se ti pagano cinque euro a pezzo, per vivere devi scriverne almeno dieci al giorno e lo puoi fare soltanto con il copia e incolla.
Così vengono pubblicate “notizie” dove manca il nome del ristorante che serve cibi scaduti perché nel comunicato stampa è stato omesso per motivi di privacy. Oppure si legge che quel bravo ragazzo di Luca Sacchi è stato ucciso per difendere la fidanzata Anastasia, salvo scoprire molti giorni dopo quello che era ovvio fin dall’inizio, e cioè che quel bravo ragazzo è stato massacrato nel corso della lite per una partita di droga. O, ancora, si scopre che la sassaiola di Frosinone contro alcuni studenti cinesi presunti portatori del coronavirus, denunciata in una conferenza stampa da un cretino che non c’era e non sapeva dove era avvenuta, non c’è mai stata.
Se non hai nessuno che ti insegni e non ti sei mai misurato con il mondo reale, con le sue gioie e i suoi dolori, non sarai mai un buon giornalista, perché per farlo, anche nell’era del digitale, servono la passione, la curiosità per le cose e per le persone, e quella che i vecchi cronisti chiamavano “la voglia di consumare la suola delle scarpe”. Solo così il giornalismo resta il mestiere più bello del mondo. Senza è un impiego come tutti gli altri. Anzi un po’ peggio, perché purtroppo se ne sente sempre meno la necessità.