Gigi Radice, l’allenatore che ha scritto l’ultimo pezzo glorioso di storia granata con lo scudetto del 1976, lo si ricorderà sempre per la sua discrezione pubblica. Una discrezione destinata a sciogliersi nei cenacoli intimi, cui si poteva accedere solo e unicamente in virtù di un’amicizia sincera e leale. Aggettivi questi ultimi due per Gigi Radice, scomparso ieri mattina dopo un’estenuante battaglia contro l’Alzheimer, derivati dalle parole che hanno identificato la sua vita sportiva: sincerità e lealtà.
Valori che nel calcio – ieri come oggi – possono rappresentare un limite, un ostacolo alla carriera. E Gigi Radice ne fece esperienze più volte sulla sua pelle. Lo provò nei rapporti con quei presidenti da cui fu esonerato, da quei calciatori da cui fu contestato e, alcune volte, anche con quella parte estremista dei tifosi. Effetti collaterali e inevitabili perché Gigi Radice – che la vulgata sportiva etichettava come “sergente di ferro” – era davvero un uomo tutto di un pezzo, granitico nelle sue convinzioni, al punto che la sua durezza poteva diventare respingente.
Ma negli anni Settanta, dopo essere stato un ottimo calciatore del Milan e della Nazionale, quel suo essere granitico lo portò ad essere un tecnico calcisticamente rivoluzionario in Italia, primo ad applicare il calcio totale interpretato dagli olandesi della Nazionale Orange e dell’Ajax, dai vari Cruijff, Neeskens, Rep, sotto la regia del tecnico Rinus Michels. Radice si mise a studiare quel calcio per plasmarlo, adattarlo al nostro che, dopo i fasti dei club nelle coppe europee e intercontinentali degli anni Sessanta, aveva necessità di un serio rinnovamento. Il calcio azzurro era poi crollato nel 1974 ai mondiali di Germania, eliminati al primo turno, dopo aver conteso quattro anni prima in finale la vittoria al Brasile di Pelé, Gerson, Tostao, Rivelino.
Guardata retrospettivamente l’impresa di importare il calcio totale non fu né facile, né semplice, perché si scontrò in primo luogo con la madre di tutti i conservatorismi: la diffidenza. Erano diffidenti i dirigenti, i giocatori, gli stessi giornalisti e tifosi pronti ad ammirare l’Ajax e l’Olanda, ma altrettanto riluttanti a credere che il nostro calcio avesse i numeri atletici per reggere il confronto.
Al contrario, la filosofia di Gigi Radice si impose e si realizzò integralmente nel Torino del presidente Orfeo Pianelli, quello dei Pulici, Sala, Zaccarelli, Castellini, Salvadori, che condusse allo scudetto nel 1976, rompendo il lungo digiuno che durava dal 1949, dalla scomparsa degli Invincibili di Mazzola, Loik, Bacigaluo, Ossola, Castigliano. Un sodalizio però che non sarebbe stato vincente se non vi fosse stata anche sincera e leale intesa sul piano umano. Un qualcosa che Gigi Radice non riuscì più a ritrovare negli anni successivi sulle panchine di Milan, Inter, Bologna, Fiorentina, fino a vedere la sua stella oscurarsi e tramontare malinconicamente.
Non a caso lo vedemmo sorridere con i suoi “ragazzi” granata nella primavera del 2006 ad un pranzo ad Alessandria voluto dal suo fido “secondo” Mirko Ferretti. Fu una giornata storica a trent’anni dalla vittoria, con quella lunga tavolata percorsa da aneddoti, ricordi e più di un rimpianto per lo scudetto mancato di un solo punto nel 1977 a favore dei cugini bianconeri.
Qualche mese dopo, in occasione del Centenario del Toro, Radice rimase nella sua Monza, unico dei grandi, a rifiutare le luci di un palcoscenico in cui non ritrovava più la lealtà e la sincerità del suo tempo.
Gigi Radice, il sergente di ferro
